1. La Costituzione della Repubblica Italiana: ragioni storiche di un compromesso.
Quindici anni fa, nelle pagine del suo celebre saggio dedicato alla figura di Cavour, lo storico Luciano Cafagna osservò che “tutto quel che si è costruito in Italia lo si è fatto con le arti, a volte geniali, a volte solo mediocri, della mediazione e del compromesso”. In queste parole – non certo prive di un fondamento di verità – può essere icasticamente racchiuso il giudizio del compianto accademico su quella “straordinaria mobilitazione delle risorse di mediazione” che, avviata dal grande statista piemontese negli anni Cinquanta dell’Ottocento, portò nel giro di pochi anni al compimento del processo risorgimentale ed all’unità politica del Paese. Il modus operandi esaltato da Cafagna non calò certo nella tomba assieme ai protagonisti di quella che – ad onta dei ripetuti tentativi di “revisionismo” – continua ad essere la pagina più gloriosa della nostra storia nazionale. La ricerca di un “geniale compromesso” tra gruppi politici differenti, esprimenti interessi e finalità in posizione tipica di conflitto, sta infatti alla base dell’opera compiuta nel biennio 1946-47 dai nostri Padri costituenti, consapevoli che soltanto una legge fondamentale condivisa da tutti, in una nazione tanto lacerata come l’Italia del dopoguerra, avrebbe rappresentato il presupposto essenziale per la futura convivenza democratica. Il carattere “convenzionale” della Costituzione repubblicana – unanimemente riconosciuto nella comunità giuridica – si spiega dunque in ragione di ciò, che la mediazione tra forze radicalmente antagoniste costituiva probabilmente, in quegli anni ed in quelle circostanze, il modo stesso di essere della democrazia, l’unica sua possibilità di esistere.
2. L’art. 42 Cost. nel quadro del processo di “storicizzazione” del diritto di proprietà. Punti di continuità e di rottura con la tradizione liberale.
Proprio nell’art. 42 Cost. è possibile individuare un punto di sintesi fra le tre principali tendenze ideologiche che permeano di sé l’intero ordito costituzionale: il marxismo, il solidarismo cattolico ed il liberalismo europeo-continentale. Tuttavia – è appena il caso di dirlo – l’apporto offerto in questa materia dalla tradizione liberale appare decisamente più modesto rispetto agli stimoli provenienti dalle altre due culture politiche appena citate. Infatti, l’esigenza di dare spazio alle “emergenti” istanze di giustizia sociale in materia proprietaria si tradusse nella formulazione di una norma, di cui colpisce, innanzi tutto, il carattere innovativo rispetto alle enunciazioni contenute nelle Carte ottocentesche. Una prima testimonianza di ciò è rilevabile già sul piano sistematico, ed è data dal fatto che la Costituzione vigente si occupa della proprietà privata non nel formulare “i principi fondamentali” dell’ordinamento, ma nella Parte I, riguardante i diritti e i doveri dei cittadini, e soltanto nel Titolo III, dedicato ai “rapporti economici”. Circostanza, questa, che vale di per sé a negare all’istituto proprietario ogni riconoscimento in termini di attributo della personalità umana, a differenza di quanto accedeva sotto il vigore dello Statuto albertino del 1848, il quale invece comprendeva “tutte le proprietà, senza alcuna eccezione” (art. 29) nel novero dei fondamentali diritti dei cittadini. Nel passaggio da un ordinamento all’altro, si è avuta dunque una sorta di degradazione del diritto di proprietà, che – in quanto diritto apprezzabile soprattutto dal punto di vista economico-patrimoniale – è stato posto su un piano di minore rilievo rispetto ai diritti immediatamente riconducibili alla personalità del loro titolare (libertà personale, libertà politica e religiosa, diritto all’auto-determinazione, diritto alla salute, etc…). Non sono mancate, invero, autorevolissime letture dell’art. 42 Cost., volte ad attribuire alla proprietà un significato decisamente più in linea rispetto ai canoni della tradizione: ad esempio, Francesco Santoro Passarelli – uno dei più insigni giuristi italiani del Novecento – ebbe ad osservare che la norma costituzionale, parlando di “riconoscimento” del diritto di proprietà, dava atto di una mera ricezione ab externo del fenomeno considerato, da intendersi pertanto come espressione di “un diritto superiore” non scritto e “preesistente al diritto scritto”. Sennonché, proseguendo nella lettura dell’enunciato, ci si imbatte immediatamente nell’affermazione, secondo la quale è la “legge” – ovverosia, il diritto positivo – la fonte che “determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti del diritto di proprietà”: ragione sufficiente per escludere qualsiasi (sebbene affascinante) suggestione di matrice giusnaturalistica. E’ vero però che la legge, in qualità di strumento regolatore dell’esistenza e dell’esercizio del diritto, non costituisce soltanto un limite all’eventuale esercizio “abusivo” delle facoltà proprietarie, ma ne rappresenta altresì la suprema garanzia contro ogni possibile lesione od arbitrio (c.d. “principio della riserva di legge”). Tale garanzia riveste sostanzialmente un duplice significato: essa, infatti, da un lato riguarda la stessa configurazione dell’istituto come elemento strutturale dell’intero ordinamento giuridico; mentre, dall’altro lato, tende a determinare una particolare capacità di resistenza delle singole situazioni di proprietà di fronte a possibili interventi ablatori della Pubblica Amministrazione. Nel primo senso, viene in considerazione il fatto che ogni limitazione alla proprietà privata, anche se dettata dall’esigenza di perseguire obiettivi di “giustizia sociale”, non solo non può mai prescindere da un legittimo supporto politico parlamentare, ma non può neppure spingersi fino al punto di svuotare sostanzialmente il diritto di ogni contenuto e valore concreto. Nel secondo senso, invece, si intende affermare la necessità che eventuali provvedimenti espropriativi risultino sempre rispettosi della legge “in senso formale” ed intrinsecamente compatibili con i requisiti di generalità e di astrattezza racchiusi nel principio di uguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.). Appare quindi evidente come l’utilizzo della riserva di legge rappresenti una adeguata garanzia per la proprietà privata, soprattutto se accompagnata dalla necessità di un serio ed effettivo ristoro in caso di espropriazione. A tale ultimo riguardo, non si può fare a meno di citare la “storica” sentenza della Corte Costituzionale (n. 348/2007), che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 bis, legge 359/1992, nella parte in cui, nel determinare la misura dell’indennità da corrispondere ai proprietari espropriati, individuava una “soglia inferiore a quella minima accettabile di ristorazione congrua, seria ed adeguata”.
3. (segue) La funzione sociale: esegesi del concetto e delle sue matrici storiche.
Il punto di rottura più evidente rispetto alla concezione liberale classica della proprietà fu dato dall’introduzione di un momento di “necessità” nel contenuto tipico di un diritto tradizionalmente designato come “signoria assoluta del volere”. Tale momento si espresse nel concetto di “funzione sociale”, al cui perseguimento l’art. 42, secondo comma, Cost. sembra subordinare il libero e pieno esercizio delle prerogative proprietarie.
L’idea di funzione sociale prese corpo agli inizi dell’Ottocento nell’ambito di tradizioni giuridiche e politiche sicuramente molto distanti da quelle che influenzarono le scelte dei nostri Padri costituenti: essa, infatti, fu sviluppata dal giurista tedesco Otto von Gierke come reazione paternalistica alla tradizione kantiana recepita nell’opera di Friedrich von Savigny, per approdare successivamente in Francia nei contributi della dottrina sociale cristiana e dei primi sociologi del diritto. A livello normativo, il concetto fu espresso per la prima volta nel § 153 della Costituzione di Weimar (1919), ove si leggeva che: “La proprietà obbliga. Il suo uso, oltre che al privato, deve essere rivolto al bene comune”. In Italia, invece, le discussioni sulla funzione sociale della proprietà animarono il dibattito nella cultura giuridica degli anni ’30, tant’è vero che la formula fu inserita nell’art. 18 del Progetto preliminare del Libro delle obbligazioni (1936), per esservi poi espunta a causa dei timori del regime fascista che una clausola dal tenore così vago ed indeterminato potesse minare alla base l’essenza coercitiva delle norme corporative. Furono dunque problemi di compatibilità con l’erigendo ordinamento corporativo a mettere da parte la funzione sociale, che – neanche a dirlo – trovò la strada spianata per fare il suo ingresso in Costituzione nel momento in cui vennero meno le resistenze fasciste e le perplessità liberali furono archiviate come “ruggine dei secoli”. Cosicché, quando la stagione del c.d. “disgelo costituzionale” prese avvio sul finire degli anni ‘50, si cercò da subito di riempire la clausola con contenuti fieramente ostili al regime della proprietà privata: “la funzione sociale della proprietà” – rileva Ugo Mattei – “venne utilizzata come grimaldello scientifico per delegittimare l’assetto produttivo della società borghese, polarizzando ideologicamente il dibattito ed impedendo la proficua elaborazione di una categoria ordinante già sofferente a causa della irrazionale normazione di dettaglio, cui veniva vieppiù sottoposta”.
Per attribuire un significato moderno e tecnico all’enunciato “funzione sociale” occorre allora adottare una prospettiva che tenga conto del benessere sociale potenzialmente proveniente in modo differenziato dai vari tipi di beni, i quali – proprio in ragione della loro non omogeneità – richiedono modelli diversi di utilizzazione. Questo modo di impostare il problema – sempre per usare le parole di Mattei – “risulta particolarmente saggio, perché i doveri di responsabilità sociale in capo ai proprietari non possono che variare a seconda delle circostanze ed in virtù di considerazioni legate in gran parte alla natura dei beni su cui il dominio insiste”. Ad esempio, mentre sarebbe ridicolo sostenere che la proprietà di un libro, in ragione della clausola generale, implichi l’obbligo di leggerlo, assai meno assurdo è affermare che la proprietà di un immobile o di autovettura, in ragione della stessa clausola generale, ponga a carico del titolare del diritto l’obbligo di stipulare una polizza assicurativa. Ciò non significa soltanto che, attraverso il prisma della funzione sociale, sia possibile sancire a livello costituzionale il principio di internalizzazione delle esternalità. Significa anche legittimare l’imposizione di obblighi ulteriori rispetto al mero allineamento tra costo individuale e costo sociale, purché “i vincenti da un certo programma redistributivo siano potenzialmente in grado di compensare i perdenti”.
4. La tutela del diritto di proprietà nell’ambito dei principi costituzionali europei: una rivincita del modello liberale classico?
Il dibattito sulla tutela del diritto di proprietà ha ricevuto nuovi ed interessanti stimoli in relazione all’influenza esercitata sul diritto interno dai principi costituzionali europei.
Il Primo protocollo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950) stabilisce all’art. 1 che: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”. Ancora più incisivamente, l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000) – inserito all’interno del capitolo “Libertà” – riconosce ad ogni individuo “il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale”. Inoltre, l’art. 6 della versione consolidata del Trattato sull’Unione europea, come definito dal Trattato di Lisbona del 2007, dispone che: “L’Unione riconosce i diritti, le libertà ed i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. A seguito di ciò, la Carta ha assunto il pieno valore di norma comunitaria, mentre in precedenza essa si qualificava come catalogo di principi fondamentali e generali applicabili dalle Corti europee.
Le conseguenze del processo di cui si è dato brevemente conto non sono di poco rilievo. L’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sembra infatti riportare il diritto di proprietà all’interno dell’alveo in cui esso trovava sede nelle costituzioni sette ed ottocentesche, ovverosia tra le libertà fondamentali del cittadino. Si è così paventato “il rischio di una progressiva disapplicazione dei principi costituzionali concernenti i profili sociali dei diritti patrimoniali” quale conseguenza del recepimento della normativa comunitaria e della giurisprudenza delle corti europee (Cesare Salvi). In maniera ancora più critica, si è addirittura asserito “il definitivo ed irreversibile superamento dell’idea che il nucleo delle attribuzioni dominicali possa essere interferito da un limite interno: ciò che, in pari tempo, segna il definitivo tramonto della funzione sociale di matrice costituzionale” (Luca Nivarra). Altri autori – ad esempio, Pietro Perlingieri – hanno invece sostenuto che “sebbene nelle proclamazioni dei diritti fondamentali appena ricordati manchi ogni riferimento testuale al vincolo sociale imposto alla proprietà, la proprietà intesa come diritto fondamentale non sfugge a bilanciamenti e a vincoli del tutto analoghi a quelli cui può far capo l’idea di funzione sociale”. Opinione, quest’ultima, che appare molto più condivisibile rispetto alle altre due, soprattutto ove si consideri che la disciplina comunitaria riconosce al legislatore nazionale il potere di prendere le misure necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale, o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.