“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”
Come primo post di questo blog, avendo la redazione collegialmente reputato doveroso un tributo alla nostra costituzione, ho scelto di commentare un articolo riguardante una tematica di mio specifico interesse e frequente oggetto dei miei studi accademici: l’art. 41, inerente l’iniziativa economica privata, le sue guarentigie e le sue limitazioni. Cercherò sinteticamente di illustrare la genesi dell’articolo, di effettuare una breve esegesi dello stesso, per poi concludere con alcune riflessioni personali
L’art. 41 appare come una tipica norma di compromesso, sorta dalla mediazione tra due antitetiche visioni dei processi economici, ennesima evidenza delle due anime che hanno prodotto la Costituzione repubblicana. Nonostante ciò, e nonostante il forte condizionamento successivo da parte del diritto vivente e dei Trattati europei, la norma ha un’importanza fondamentale, in quanto permette di inquadrare il rilievo costituzionale dell’iniziativa economica ed il suo inserimento nel novero dei diritti fondamentali.
La dottrina riconosce pressoché ormai unanimemente l’ambiguità di fondo di questa disposizione. Tale disposizione, infatti, fa emergere la mancata presa di posizione in merito da parte dei nostri padri costituenti, soprattutto a causa della mediazione che ha arginato quelle prospettive collettivistiche che concepivano in modo meno distinto questa libertà. Dal raccordo dei differenti commi dell’articolo si manifesta, da un lato, la perentoria dichiarazione del principio di libertà, che viene mantenuta intoccabile nella sua essenza, mentre, dall’altro lato, proseguendo nella lettura dei commi successivi, emergono delle limitazioni determinate da quei valori solidaristici a cui la nostra Costituzione si ispira. E’ importante sottolineare in quale modo viene orientata l’iniziativa privata: questa non deve necessariamente indirizzarsi verso il raggiungimento dell’utilità sociale o favorire la libertà o la dignità umana, ma secondo il dettato costituzionale deve semplicemente evitare di contrastare questi obiettivi. A testimonianza di ciò, possiamo vedere come l’ultimo comma pone un livello oltre il quale le limitazioni non possono andare, mantenendo l’autonoma efficacia precettiva dell’art. 41 e prevedendo che i programmi (e non i piani, chiara indicazione semantica atta a evitare una presa di posizione ideologica) e i controlli non possano mai arrivare a sopprimere la libertà di iniziativa economica privata. L’opinione maggioritaria è che con questo articolo i costituenti abbiano voluto sancire un principio di libertà individuale ponendo la persona al riparo dall’indebita ingerenza da parte dello Stato, in linea con quella concezione liberale di interpretazione che affermava la libertà di impresa come diritto individuale di rango costituzionale. L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale ha chiarito, sin dalle origini, la concezione libertaristica di questa disposizione, cercando di tenere indenne la libertà di iniziativa da posizioni dirigistiche, invocando addirittura la riserva di legge, superando invero il dettato letterale della norma. E’ pertanto la legge, con tutte le garanzie che questa rappresenta, a dover contemperare gli interessi in gioco. E’ molto importante un elemento che è emerso dalla giurisprudenza costituzionale: l’aver chiarito che l’applicazione dei limiti alla libertà economica possa avvenire solamente in funzione di altri e determinati interessi costituzionalmente rilevanti specificamente individuati caso per caso, permettendo di farne oggetto di un contemperamento. Questo ragionamento vale anche per il limite più insidioso per la libertà economica, costituito dall’utilità sociale, il cui nucleo essenziale è stato sempre circoscritto solamente a quei valori tutelati direttamente dalla costituzione, come la libertà personale, l’ambiente, la libertà di espressione e vari altri, permettendo di affermare che la legislazione che appone limiti alla libertà di iniziativa economica privata non possa avere una carica finalistica generale e totalizzante tale da superare la libertà stessa.
Con l’Atto Unico europeo e con il Trattato di Maastricht il modello dell’economia sociale di mercato influenza ulteriormente l’assetto delle relazioni tra politica ed economia, modificando le istituzioni della nostra costituzione economica e mutando l’aspetto della costituzione materiale. L’ordinamento comunitario introduce i principi della libera circolazione dei beni e servizi, la libertà di stabilimento e la libertà di concorrenza, pertanto, rapportandosi all’art. 41, che fonda una situazione soggettiva di libertà individuale, il diritto comunitario esprime prevalentemente un modello di relazioni economiche e giuridiche, richiedendo quindi l’apertura del mercato e la libera circolazione come premessa per il loro svolgimento, reprimendo limitazioni e discriminazioni all’accesso al mercato. Queste modifiche hanno determinato uno spaccamento nella dottrina che, a costituzione invariata, si è posta degli interrogativi: da un lato vi era chi riteneva che l’art. 41 avesse da sempre accolto il modello del mercato aperto, dall’altro, vi era chi riteneva che la Costituzione non avesse compiuto una scelta così spiccatamente in favore del libero mercato e che solo un potere costituente avrebbe potuto riordinare la situazione. Da questa incertezza di fondo è risultata una realtà normativa instabile ed incerta, in quanto non suscettibile di una scelta di campo netta. E’ emblematica la situazione dei servizi pubblici locali, spinti sulla base della maggioranza di turno verso politiche di apertura del mercato attraverso privatizzazioni e liberalizzazioni, pur mantenendo la P.A. una solida presenza come azionista nell’economia, smentendo la vocazione verso la privatizzazione. Resta tuttavia una forte innovazione indotta dal diritto comunitario, di cui si sono sentite conseguenze anche a livello del diritto vivente, attraverso l’accoglimento da parte della Corte Costituzionale del valore del libero mercato come matrice delle relazioni economiche, spingendosi fino a qualificare la tutela della concorrenza come valore costituzionale essa stessa, materia che con la riforma del titolo V del 2001 è inserita nella competenza esclusiva dello Stato (Art. 117, comma 2°). Tale processo è stato peraltro rafforzato dall’art. 117 1° comma, laddove prevede che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni deve essere esercitata, oltre che nel rispetto della Costituzione, anche dei “vincoli derivati dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”, innovando rispetto alle consolidate interpretazioni dell’art. 11 della Costituzione e permettendo alla Corte di decidere direttamente sulla illegittimità costituzionale della legge nazionale in contrasto con una fonte di diritto internazionale pattizio, consentendo quindi alla Corte di utilizzare come parametro di costituzionalità riguardo all’iniziativa economica privata, anche le regole del diritto comunitario, atteggiamento che, in verità, aveva già cominciato ad apparire in alcune pronunce ante 2001. Se ne ricava, quindi, un concetto: l’apertura come criterio di fondo delle relazioni tra politica e istituzioni.
A conclusione di questa sintetica esposizione è opportuno effettuare alcune riflessioni. Svolte culturali così profonde e repentine come una tale apertura verso il mercato sono possibili e pienamente efficaci solo se riscontrano un terreno fertile nelle strutture sociali e istituzionali. Il liberalismo e l’interventismo dello Stato possono essere graduati in modo diverso, l’uno con correzioni dovute alla sfera pubblica, l’altro può ammettere la coesistenza della libertà di impresa. Elemento essenziale è tuttavia che il punto di equilibrio venga raggiunto a seguito di un’analisi completa degli interessi in gioco ma tenendo ben chiaro un punto di partenza: il primato nel nostro ordinamento va alla liberà individuale di iniziativa economica, mentre, invece, gli altri interessi pubblici che possono condizionarla, vanno sempre e puntualmente individuati e dichiarati mediante processi istituzionali consoni alla nostra identità.
Il mio personale giudizio sulla norma, nonostante il chiaro “profumo” di compromesso che vi si respira è sostanzialmente positivo. Questa norma è quella stessa norma che ha consentito l’ingresso del nostro paese nel novero dei paesi più industrializzati. La norma rappresenta una piattaforma che ha sancito delle libertà senza imporre un intervento statale, consentendo un’interpretazione evolutiva capace, senza snaturarne la portata e senza modificarne il contenuto, di adeguarsi ai tempi e agli eventi di portata internazionale, senza che vi fosse un’effettiva necessità di riscrittura dell’articolo. La cornice costituzionale è pertanto a mio avviso idonea ed adeguata, rimanendo compito del legislatore ordinario e del potere esecutivo far sì che una tale libertà sia foriera di sviluppo e che allo stesso tempo limiti le sperequazioni, ma per fare ciò, sono necessari degli idonei piani industriali.