Via D’Amelio, 1992. Paolo Borsellino. Palermo e lo scenario da Beirut, come fu definito all’epoca. Immagini, video, parole che ogni anno vediamo e commentiamo. La morte di Falcone e Borsellino sono diventate un rito collettivo, una confessione personale che di anno in anno si rigenera. Questo forse accade perché oltre a cercare la verità sentiamo dentro di noi il dovere di ricordare, quasi a pulirci la coscienza.
Prima di dire due parole, così, per fare anche io pace con me stesso, metto qui un piccolo estratto del discorso che Paolo Borsellino pronunciò in occasione dei funerali di Giovanni Falcone. Da qui vorrei cominciare.
“La lotta alla mafia è il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata. Non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.
Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi.” E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dava al lavoro del giudice. Significava qualcosa di più, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze.”
Bene, è evidente che chi come me ha la fortuna di vivere in una terra diversa dalla Sicilia non può che leggere quelle storie con un occhio distaccato, se non altro per la “lontananza” che il tema mafioso sembra portare con se. Pensiamo ai tradizionali stereotipi e ci sentiamo al sicuro, tranquilli che a noi, teste di cavallo nel letto, non capiteranno mai.
Questo è il primo grande errore che uomini come Paolo Borsellino hanno cercato di insegnarci: non cedere mai all’indifferenza.
Ho avuto la fortuna di trovare un libro che, così per caso, qualche anno fa mi ha aperto gli occhi sul reale senso delle battaglie di eroi moderni quali Chinnici, Dalla Chiesa, La Torre, Falcone. Si tratta di “Trent’anni di mafia” di Saverio Lodato, uscito per la prima volta nel 1990 con il titolo “Dieci anni di mafia” e periodicamente aggiornato.
Il lavoro di questi grandi uomini viene descritto in maniera magistrale. Si capisce subito che il loro non era un lavoro semplicemente incentrato su criteri processuali, investigativi o su pistolettate degne del miglior Tarantino; il loro era un lavoro intimo e profondo di ricostruzione di un senso morale e civile in una terra che lo aveva smarrito. Quando lo Stato e le sue articolazioni non dimostravano ai cittadini alcuna utilità, quando l’istituzione regionale stanziava ogni anno risorse economiche che finivano in mano alle cosche, quando le forze dell’ordine chiudevano un occhio ed i politici accettavano voti pilotati, quando perfino le parrocchie offrivano scudo a lavori sporchi, ecco che si sviluppava l’indifferenza e la paura. Il tema è quello dell’abbandono da parte dello Stato e della politica e poi quello della conseguente rassegnazione al mondo sotterraneo.
Indifferenza, paura, cultura e conoscenza. Questi sono sintomi ed insegnamenti che possiamo attualizzare e fare nostri, anche laddove ci si senta immuni come nella nostra città. Perché è esattamente laddove cresce il compromesso, il favore, la parentela, e non il merito, l’onestà o la trasparenza, che piano piano ciò che è sbagliato diventa lentamente normale, ciò che è da condannare diventa abitudine. Borsellino lo vorrei allora non solo ricordare ma far vivere ogni giorno con la sua continua richiesta di dignità nel compiere il proprio lavoro e nell’incessante domanda di sentirsi comunità. Questo sento di poterlo fare.