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Due esperienze sulla lotta allo spreco

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Ultimamente mi imbatto casualmente in discussioni vertenti sul tema del ‘voi che mangiate carne siete dei poveri insulsi, noi che mangiamo verdure siamo i top one’.

Che poi non ci sarebbe niente di male in questo, e in realtà non voleva essere questo il punto centrale del discorso.

Solo che ci sono quintali, chilometri di pagine su tale argomento, e niente sulla cd ‘lotta allo spreco’, il ché mi pare preoccupante; lo spreco di prodotti ancora commestibili – tema che si inoltra sia nel dibattito delle abitudini quotidiane proprie delle famiglie, sia nel comportamento delle istituzioni e delle aziende.

Dagli Stati Uniti arrivano due storie, molto singolari. Ovviamente non voglio persuadervi del fatto che siano soluzioni convincenti – sono un po’ come S. Tommaso, se non vedo non credo.

La prima riguarda l’esperienza estrema di Rob Greenfield, che per 7 giorni su 7 ha gironzolato per gli Stati Uniti alla ricerca di cassonetti (avete capito bene) per nutrirsi di questo ‘tesoro nascosto’.

Sono stati rilevati cibi per un valore di 200 Dollari e più, la cui combinazione ha dato alla luce ventuno piatti diversi (Nutritious and delicious dumpster meals – come sono stati rinominati dallo stesso Rob).

Nella sua esperienza oserei dire mistica, egli ha voluto urlare agli Stati Uniti d’America che la quantità di cibo prodotta dagli americani sfamerebbe, teoricamente, il doppio della loro popolazione, ma che poi, sostanzialmente, il 30% finisce nella spazzatura.

La seconda storia, invece, trova una soluzione che non so se in Italia potrebbe essere attuata. Anzi, senza voler peccare di presunzione, credo proprio di no. Però è interessante raccontarvela.

In Massachusetts è stato aperto un negozio di generi alimentari che non sono più commestibili in base alla loro data di scadenza, ma che poi in realtà potrebbero essere usufruiti.

Doug Rauch, promotore di tale iniziativa, ha usato una logica basilare e convincente per due ragioni: la vendita ha per oggetto generi alimentari non pericolosi (nel senso di danno alla salute) ad un prezzo ovviamente calmierato rispetto al prezzo di partenza, e ciò andrebbe incontro anche alle conseguenze negative che la crisi economica produce costantemente.

Inoltre si cercherebbe di ridurre (ed in un paese come gli Stati Uniti è uno dei punti fondamentali) la diffusione di patologie quali obesità e diabete, in quanto – secondo una statistica- si permetterebbe alle classi sociali più povere di garantirsi un’alimentazione sana e nutriente grazie a dei prezzi che sono in linea con quelli da fast food – che offrendo cibo a prezzi bassi, diviene l’unica fonte alimentare di queste persone.

E poi si ridurrebbe lo spreco del cibo, il quale appunto avviene in primis buttando nella spazzatura cibo ancora commestibile (stimato al 40% nel 2012).

Ma ciò che sta più a cuore per Doug è quello di infondere nelle persone la sicurezza in prodotti che non sono assolutamente scaduti, nonostante la data di scadenza indichi qualcos’altro; che le morti collegate al cibo sono perlopiù dettate da cibo ancora in regola. Che la lotta allo spreco deve diventare un programma politico solido e concreto, anche all’unanimità degli Stati.

Insomma, che questo diventi un argomento di riflessione sui social network, nei ristoranti (perché no? Ah già,nel Sud Italia usa chiedere la roba –pagata ovviamente- non consumata al proprio tavolo, ma di questo semmai ve ne parlerò poi), su una panchina, al pari delle discussioni per cui mangiare la verza al posto dello stinco di maiale sia migliore.

PS: dato che sono paranoica, non ce l’ho coi vegetariani (ve lo giuro). Mi piace molto l’ironia.

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