Sono passati 10 anni dalla morte di Marco Pantani, che avvenne nel giorno degli innamorati nella stanza D5 del residence “Le Rose” di Rimini, a causa di un edema polmonare e cerebrale conseguente a un’overdose di cocaina.
E’ morto da drogato Marco, che però non ero un dopato.
Metto subito le mani avanti: il Pirata è uno dei miei sportivi preferiti, non chiedetemi obiettività perché non l’avrete. Nel ’98 avevo 11 anni, e anche oggi mi vengono le lacrime nel risentire nelle orecchie l’urlo (classico) di De Zan “Scatta Marco Panatani…”. Era il preludio di un’inesorabile trionfo: perché la strada sembrava risucchiare chiunque avesse due ruote sotto il culo, tranne lui. Quei 55 kg di potenza pura che 33 anni dopo Felice Gimondi portarono l’Italia sul gradino più alto del Tour, non appena trionfato al Giro.
Ma come cavolo faceva? Erano tutti fermi mentre lui, pedalata dopo pedalata, scaricava quintali di violenza sull’ asfalto ruvido che ingoiava metro dopo metro fino al traguardo. “Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia”, rispose a Gianni Mura (sempre sia lodato) che gli chiedeva lumi sulle sue gesta. Marco non pedalava: sfidava la gravità, le percentuali di pendenza, gli avversari. E lottava contro se stesso lasciando per strada soltanto gocce di dolore che cadevano a terra staccandosi dal mento e dai gomiti. Quella sofferenza, ingrediente di base del ciclismo, era la sua benzina che riusciva a sublimare lassù, in cima al Mortirolo o a Les Deux Alpes.
Nel 1999 sono momenti particolari per il ciclismo, negli anni in cui iniziava la parabola discendente legata al doping. A Madonna di Campiglio, in quella provetta, viene riscontrato un valore di ematocrito del 52%, superiore dell’1% rispetto ai limiti: “sospeso per motivi precauzionali per 15 giorni”. In pratica è come ritirare l’idoneità per la pratica sportiva. L’ematocrito, per chi non lo sapesse, è il volume del sangue occupato dai globuli rossi: sono quelli che trasportano l’ossigeno e quindi, più ce ne è e più migliora la prestazione. Aumenta quando l’ossigeno che si respira scarseggia, ad esempio passando in montagna un periodo superiore alle 3 settimane. Aumenta anche per un intervento esterno: EPO e CERA, ovvero il doping.
Marco è spirato in quel momento, quando gli esce di bocca il suo stesso epitaffio « Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni, e sono tornato a correre. Questa volta, però, abbiamo toccato il fondo. Rialzarsi sarà per me molto difficile. » Pantani giura non aver mai preso niente. Lo confermerà, indirettamente, anche l’autopsia. L’EPO non è come la casa con vista sul Colosseo di Scajola: non si riceve un’endovena a propria insaputa. E io, ovviamente, non credo alle parole di Marco: credo a quello che è successo dopo, perché i gesti hanno più valore delle parole. Quando un atleta si dopa, lo fa per vincere: e sa di farlo. Armstrong, Schwarzer, Di Luca, Powell: dal momento in cui toccano la prima pasticca, inizia a strutturarsi nella mente il giorno in cui verranno scoperti. Per qualcuno è una liberazione, per altri è una disdetta, ma comunque è un evento previsto: presto o tardi.
Pantani no, la vive come un’ingiustizia e come un’onta da cui non riesce a liberarsi: inizia la fine. Spende mezzo miliardo delle vecchie lire in avvocati per chiarire cosa fosse successo in quella provetta. Sceglie personalmente lo staff che lo accompagnerà di li in avanti: non si fida più di nessuno. D’un tratto i 55 kg di potenza divengono ostaggio di un uomo fragile. Quello che da ragazzo faceva sfilare tutto il gruppo dei corridori solo per il gusto di riprenderli tutti prima di tagliare il traguardo, si abbandona alla cocaina.
Col senno di poi, si dirà che nessuno è riuscito a salvaguardare l’uomo che stava dietro il campione. Che sarebbe bastato veramente poco per evitare questa tragedia.
A me, e a milioni di sportivi, rimangono le emozioni vere che ci ha regalato una persona vera.