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Quelli che… un anno senza Enzo

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Il 29 marzo dello scorso anno ero qui, di fronte al mio PC, probabilmente indaffarato nella stesura finale della tesi di laurea. In un secondo, aggiornando la pagina dell’ANSA, compresi quanto lo sgretolarsi dei miti possa trascinarti in una cancrena di tristezza e pensieri. Mi dispiacque molto anche per Dalla, soprattutto perché era un uomo di una dolcezza infinita, e ciò riusciva a trasmetterlo anche nella semplicità di non negarsi a foto ed autografi nel parcheggio privato del Teatro Goldoni, dopo un concerto con il sempre schivo e scontroso De Gregori.

Ciò che mi colpì maggiormente per la scomparsa di uno dei “Due Corsari”, del “Ja” dei “Ja-Ga Brothers”, era il veder vinto chi non poteva esserlo. Chi faceva dell’anticonvenzionale e dell’anticonformismo il proprio stile di vita, sempre camminando sul nodo di una cravatta e mai sconfinando nel trash.

La prima ed (ahimè) unica volta che vidi Enzo Jannacci fu a Livorno, al Premio Ciampi, probabilmente avevo 7 o 8 anni e fu lì che chiesi ai miei “Come mai quell’uomo si muove così ? E’ malato ?” e mi venne risposto “No, è Jannacci”.

Era un personaggio a sé, capace di prendere in giro chiunque, con quelle mosse incomprensibili, con quell’alibi da astratto sognatore dinoccolato e quelle parole ricolme di sarcasmo. Tra un “piripirippippì” del telegrafista sfortunato in amore che premeva su un tasto solo, alla “Veronica” che amava far l’amore “in pè”, Enzo narrava dei più deboli, degli emarginati, delle scarpe da tennis e dei gruisti.

Come una cassetta polverosa, mandata al confino dagli mp3.. così riscoprii Jannacci qualche anno fa. Mi innamorai del suo stile narrativo, che c’è e non c’è, che impegna chi lo ascolta con urli, iati, versi e dialetto, che gioca a dire molto, senza farsi scoprire troppo. Un nonsense intellettuale, capace, complesso e preciso.

Le canzoni del medico chirurgo, milanese e milanista, cantautore e cabarettista, diventano famose grazie al duo Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto. Il brano “Ho visto un re”, con la collaborazione di Dario Fo, sarà impugnato dalle piazze come inno politico sessantottino, ed il singolo che lo proietta in classifica: “Vengo anch’io. No, tu no” nasconde, dietro ad un ritmo incalzante, un’evidente denuncia dell’emarginazione (nonché, nel testo originale, un richiamo alla tragedia dei minatori italiani in Belgio e le sevizie di Mobutu in Congo).

Tra le tante, è doveroso citare “Se me lo dicevi prima” dove si narra le difficoltà di chi è malato e deve misurarsi con la lobby medica, e “Silvano (non valevole ciccioli)” dove la trattazione di un argomento delicato come l’omosessualità è a dir poco geniale.

Ero di fronte alla Tv il 19 dicembre 2011, quando venne organizzato uno speciale da Fabio Fazio (la trovate online sul Tubo), e fu lì che iniziai ad annusare una parvenza di coccodrillo. Probabilmente il mondo dello spettacolo era già a conoscenza della sua malattia. I brani reinterpretati dai suoi vecchi amici, tra i quali Massimo Boldi, Teo Teocoli, Cochi e Renato, ma anche J-Ax e Ale e Franz (qualcuno, al dire il vero, un po’incerto nell’esecuzione), vennero tutti magistralmente accompagnati dal pittoresco Paolo Jannacci, figlio di Enzo. Quest’ultimo comparve nei minuti finali dello speciale, visibilmente debilitato, ma sempre capace di chiudere raffinatamente una bella serata, un po’malinconica.

Credo che ognuno di noi debba imparare qualcosa dalle righe del cantautore milanese per antonomasia. E magari riusciremo a capirne il senso solo vestendo i panni di quell’uomo che chiede una sigaretta ad un gruppo di giovani e “sciopà” a ridere, trovando un “barbùn” che ci chiede informazioni, un “cane coi capelli”, un “Armando” o il “palo della la banda dell’ortiga”. Perché, prima o poi, potremmo essere noi quelli che “vivono da malati, per morire da sani”, perché almeno una volta qualcuno di noi è stato tra “Quelli che se lo sentivano”e perché conosciamo “Quelli che votano scheda bianca per non sporcare” o “Quelli che l’ha detto il telegiornale!”

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