Stamani, dentro un bar di Viale Carducci, mentre gustavo il mio cappuccino schiumante, una signora seduta vicino al bancone continuava a scuotere la testa. “Premi il tasto uno per questo, il tasto due per quell’ altro. Inserisci il codice cliente, rimani in attesa… ma lo sanno questi signori della compagnia telefonica che ho quasi ottantun anno, sono sola, ci vedo poco e son senza telefono da tre giorni?”. Anche il barista guardandola scuoteva il capo. Improvvisamente mi fermo, lascio la “Gazzetta” e comincio ad ascoltare le parole tremanti di una donna che avrebbe potuto tranquillamente essere mia nonna. “Dopo aver lavorato una vita con una pensione da miseria mi ritrovo a discutere con una voce registrata solo perché non mi funziona più la linea del telefono. E non mi fanno parlare con un essere umano, con una persona a cui scorre il sangue nelle vene. No, la voce guida! Lasci il numero e verrà ricontattata via sms per conoscere lo stato della sua riparazione! Il che cavolo di mondo siamo finiti? Forse stavamo meglio quando eravamo sfollati dentro la fortezza! Almeno si parlava ghigna a ghigna!”.
In un attimo ho avuto un brivido.
Come darle torto? Siamo arrivati a far parlare i cellulari, ai navigatori satellitari, ad apparecchi tecnologici che ormai riteniamo indispensabili per la vita di tutti i giorni. L’aspirapolvere intelligente gira da solo per casa, la lavatrice temporizzata parte appena finisce la lavastoviglie. Col televisore ultima generazione possiamo usare skype e vedere persone all’altro capo del mondo. Ma il calore umano dove è finito? I caselli autostradali sono ormai quasi tutti automatici, gli sportelli delle banche hanno sempre meno addetti, tutto online o al bancomat. Ormai si possono anche versare soldi in contanti al bancomat. Non c’è più tempo per fare la fila, per scambiare una battuta, per salutare l’amico che non vedevi da anni. Ci siamo costruiti un mondo dove ci svegliamo la mattina e cominciamo a rincorrere nervosamente l’orologio fino a quando, stramazzanti, non arriviamo a letto la sera. Nei rari momenti di condivisione c’è sempre qualcosa che squilla a qualcuno o la televisione che dice qualcosa di importante, o una mail a cui si deve rispondere subito, o la foto arrivata su whatsapp alla quale bisogna assolutamente replicare. Qualche giorno fa ho visto un cartello interessante in un locale: “qui si chatta dal vivo e senza cellulari o computer. Si chiama PARLARE”.
In tutto questo ci sono grandi momenti di solitudine, in mezzo ad una moltitudine di persone che schizzano freneticamente da un luogo all’ altro, da un pensiero all’ altro. Ripenso alle sedie che stavano fuori dai portoni, quando ero piccolo. In una Livorno sbiadita, nelle immagini che mi passano davanti se chiudo gli occhi, ma pulsante, viva. Gli anziani (ma non solo) ci passavano le serate a chiacchierare. In mezzo di strada, al fresco. Parole, pensieri, carte, urla, risate. Tutto questo sembra un mondo dannatamente lontano. Siamo vicini di tavolo, di posto in autobus o alla posta (finché non troveranno il modo di automatizzare anche quella!) ma sempre in un mondo parallelo, con i nostri cellulari tuttofare. Siamo delle entità singolari, spesso, sedute insieme su una panchina.
A volte invidio le generazioni di una volta: millemila problemi (per usare un neologismo iperbolico) ma sempre al caldo di un’umanità che si toccava con mano. E senza l’obbligo di rispondere ad una voce registrata, componendo freneticamente numeri uno dopo l’altro sulla tastiera del telefono, per avere una semplice risposta.
Addirittura gli sms sono diventati in pochi anni “antichi”. Fino a qualche anno fa si leggevano e biascicavano a mesi di distanza. Venivano salvati nella memoria del telefono per anni — spesso addirittura trascritti a penna — fino a quando, parlando di storie sentimentali, la storia d’amore non finiva, quando il gesto di cancellare un sms era considerato un atto più radicale e irreversibile di stracciare una foto della coppia felice. In dieci sms si poteva avere il riassunto dell’intero corso della relazione, dai primi sussulti fino all’addio. Defunta la forma breve, oggi si comunica a tutte le ore con WhatsApp, da ogni angolo del pianeta. E del talento poetico sembra rimanere solo la chiacchiera amorosa. Il bla bla. Il «Ciao, come va?», «Ciao, bene, tu?», «Ho visto che eri online», «Ah», «Stai bene?», «Sì, ciao, e tu?». Sbrigato il noioso limite dei 160 caratteri, chi digita pare ormai abituato all’idea che l’istinto abbia vinto sulle metafore. Non resta nulla da trattenere in memoria, o da scrivere su un taccuino, se nello scorrere delle frasi non c’è più niente da interpretare.