Il mio intervento di oggi in Consiglio Comunale in occasione dell’XI settimana di azione contro il razzismo.
“Oggi celebriamo l’XI Settimana di Azione contro il Razzismo promossa dall’UNAR in collaborazione con il MIUR e l’ANCI. Siamo di fronte ad un’occasione per provare a riflettere insieme su cosa sia il razzismo oggi, in che forme si presenta e attraverso quali canali si diffonde, all’interno delle nostre comunità. Occasioni come queste riescono se le utilizziamo per provare a costruire collettivamente una visione culturale e politica che non sia solo di testimonianza ma che possa trasformarsi in buona pratica di azione.
Perciò in questo intervento non farò citazioni, che seppure importanti ed esemplificative di un modo di vivere e pensare, non sono più sufficienti alla costruzione di un argine resistente e credibile contro il razzismo. Le citazioni spesso ci puliscono la coscienza, ma attengono al passato, e come tali, talvolta ci fanno dimenticare che il presente necessita di essere rinnovato continuamente da nuove parole e nuovi impegni.
Non voglio neanche appellarmi solo alla tradizione che vuole la nostra città cosmopolita e tollerante, nata dall’incrocio e dalla fusione di più culture. Non sarebbe questo il modo per cercare di comprendere perchè e come anche nei nostri territori il razzismo è divenuto una sottile forma di pregiudizio e discriminazione verso il basso. E poi, anche la tradizione, non è detto che continui nel presente, va anzi proprio misurata con il presente.
Per cui credo invece che valga la pena riflettere sul titolo che l’UNAR ha dato a questa iniziativa, e partire da qui. “Accendi la mente spegni il pregiudizio” ci dice una cosa molto semplice eppure di grande attualità: per combattere il razzismo, per non essere razzisti si deve usare il cervello, mettere a frutto le nostre conoscenze e i nostri saperi per opporre la capacità di ragionamento e di collaborazione alla logica discriminatoria e spesso banalizzante che le diverse forme di pregiudizio razzista adottano.
È un dato storico che all’acuirsi delle fasi di crisi economica diversi aspetti della società, come la cultura, la tenuta sociale, i livelli di scolarizzazione e ovviamente la qualità della vita tendono a diminuire in modo esponenziale. Cioè, dove la crisi economica batte duro, meno cittadini sono disposti a esercitare forme di solidarietà, meno cittadini vanno al cinema, a teatro, comprano dei libri, e purtroppo sono sempre di più le famiglie in difficoltà ed i figli che interrompono il percorso scolastico nel tentativo di contribuire al bilancio familiare. Quindi meno cittadini hanno la possibilità di provare a comprendere collettivamente le cause e gli effetti della condizione economica e scatta quel processo della frammentazione delle risposte, dell’iper-individualizzazione dei bisogni, della semplificazione che sfocia nel qualunquismo.
Troppo spesso mettiamo da parte la ricerca di risposte complesse, in grado di tenere insieme più fattori, uno per tutti, le ragioni degli altri, e preferiamo pensare ed eleggere le sole nostre ragioni come limite di verità.
È questa la matrice del qualunquismo populista dove gli stranieri sono tutti delinquenti, gli immigrati del nord africa tutti dei terroristi. Eppure basterebbe leggere il rapporto ISTAT del 2014 e le statistiche che ci racconta, che per essere chiari non sono quelle di Matteo Salvini.
Non è quindi l’immigrazione, lo straniero, ad essere un fenomeno negativo; negativo è avere politiche europee sul fronte dell’immigrazione clandestina che ci lasciano soli; negativo è non porsi il tema della fuga dai territori martoriati dal terrorismo e dalle guerre sempre più vicini a noi pensando che voltarci dall’altra parte dia una risposta all’esplodere dei fenomeno dei richiedenti asilo; negativo è il non sapersi relazionare in modo adeguato con le nuove rilevanti comunità che abitano il nostro paese e che se integrate contribuiranno significativamente ad impedirne il declino.
Contrastare le forme di razzismo dunque vuol dire anche non cedere ad informazioni strumentali di chi usa la questione immigrazione come cavallo di battaglia per le proprie campagne elettorali, vuol dire partire dall’idea che gli uomini e le donne hanno gli stessi diritti, che è giusto pretendere gli stessi doveri da tutti. Il rispetto delle regole del nostro paese non devono ovviamente trovare eccezione nella loro applicazione.
Dunque il mondo intorno a noi cambia rapidamente e la crisi globale genera conseguenze drammatiche non solo in quelle parti del modo più svantaggiate, ma colpisce anche le nostre comunità locali: disoccupazione, nuove povertà, repentini cambi nello stile di vita, perdita di dignità. Questo genera sentimenti di rabbia, delusione, sconforto, talvolta violenza, sono sentimenti che hanno bisogno di trovare uno sfogo, che generano compressione e stress nelle nostre vite e che pertanto cercano dei buchi dai quali uscire: un colpevole; vicino, diretto, tangibile verso il quale scaricare la colpa di tutto. È in questo momento che le forme di pregiudizio, ed i nostri limiti trovano forma e si condensano in un atteggiamento razzista, discriminatorio, accusatorio, spesso immotivato, verso colui che diverso o comunque dissimile da noi arriva ad incarnare quel mondo che ha destabilizzato il nostro equilibrio.
Il razzismo di fatto consola, ci pacifica con noi stessi perché sposta i nostri limiti oltre, li trasforma in altro, avvalora le nostre paure e ci rende padroni di una verità, ci fornisce spiegazioni semplici, immediate, facili da comprendere e da credere.
Ho esplicitato all’inizio di questo intervento che non avrei citato le origini cosmopolite di Livorno perché purtroppo non sono più l’esempio migliore per raccontare oggi la nostra città e neppure per stimolare una riflessione sulle forme di integrazione e tolleranza.
Livorno come molte altre città italiane ha subito pesantemente gli effetti di una crisi feroce e radicale. Ha sperimentato in questi anni le nuove povertà, una disoccupazione estesa e prolungata, ha iniziato a chiudersi in se, sviluppando quelle forme di individualismo e di semplificazione che hanno portato anche Livorno a guardare allo “straniero” come ad una minaccia, qualcuno da cui guardarsi, qualcuno potenzialmente rischioso per un equilibrio cittadino di fatto già compromesso e frammentato.
Credo che difronte a questo quadro la politica e la società civile organizzata abbiano un ruolo fondamentale, quella di osare un passo avanti, oltre le paure e le preoccupazioni dei cittadini, provando a ricostruire un quadro di dialogo dove le ragioni di tutti possano trovare spazio e dove la cornice del confronto sia segnata dalle forme della legalità e del riconoscimento reciproco dei diritti e dei doveri.
Questa responsabilità compete alla politica, perché impatta sulla capacità di governo dei territori, sulla possibilità di costruire strumenti adatti alla gestione delle criticità e sulle forme di sviluppo che un territorio decide di darsi.
Ma questo ruolo è debole e inefficace se non viene condotto in collaborazione con la società civile organizzata, quella parte di comunità fatta di organizzazioni sindacali, associazioni, fondazioni che quotidianamente lavorano sul terreno dei diritti, dell’inclusione e della cultura. È importante non disperdere le forme più prolifiche di cooperazione sociale, quelle dove i diversi ruoli trovano momenti e stimoli per collaborare: quando la politica sa farsi interprete positiva delle istanze che arrivano dalla società e la società sa comprendere gli indirizzi politici.
In questo quadro dove l’antirazzismo deve essere pratica sociale, azione concreta in grado di produrre risultati tangibili, l’Amministrazione deve giocare un ruolo centrale: sapere scegliere le priorità e abbinare a queste servizi sostenibili e capaci di rispondere alle concrete esigenze. È importante non cedere alla riduzione, spesso dettata dalla logica dei tagli, delle occasioni di crescita culturale ma anzi serve rilanciare con innovazione e competenza politiche in grado di intercettare di più e meglio le reali criticità fornendo soluzioni possibili e condivise.
È importante uscire fuori dalla logica che per troppo tempo ha caratterizzato soprattutto l’operato della politica dove ai grandi slogan non è seguito coerentemente un atteggiamento pragmatico e realmente riformista. Abbiamo delegato alla sola memoria del passato le nostre rivendicazione antirazziste senza renderci conto che le forme stesse del razzismo stavano mutando e che trovavano una stratificazione di normalità nella nostra società. Non è ancora tardi ma il tempo perduto deve essere recuperato, senza ipocrisia ma con la ferma convinzione che lasciare scoperto questo fronte significa lasciare aperta la porta alle forme più intollerabili e meschine di discriminazione, esclusione e povertà.”