Diciamocelo chiaramente. Anche questa vicenda drammatica che si è consumata nel canale di Sicilia, l’ennesima, ha riproposto una novità peculiare di questo tempo: la “semplificazione da social network”. Ovviamente non me ne voglia nessuno in particolare, è solo una riflessione generale. Sono anche sicuro che i più siano mossi dalle migliori intenzioni e sicuramente anche io sarò caduto nello stesso errore in altre occasioni simili. Che poi a voler essere onesti, non è neanche un vero errore, è solo il mondo in cui viviamo, quello che ci impone di essere rapidi, immediati, con il rischio di essere superficiali.
“Semplificazione da social network”. Sono centinaia i commenti che ho letto su Facebook o su Twitter. Centinaia le foto. Non fraintendetemi. Il punto non è toccare la notizia, in questo non c’è niente di male. Spesso ci capita di pubblicare un’immagine o due righe di testo per partecipare emotivamente ad un fatto straordinario, sia esso positivo o negativo. Il punto che invece mi interessa ha a che fare con il concetto di semplificazione: evitare ogni logica di approfondimento, ogni tentativo di elaborazione propria, e spararla li. Così c’è chi spara usando l’emotività, chi spara usando il cinismo, chi spara una balla colossale. E di solito, chi la spara per primo e la compone meglio, viene gradito di più, viene condiviso di più.
In questa dinamica molto sociale ma assolutamente poco culturale, perdiamo il senso vero delle cose, si perde appunto quel minimo di analisi o quel pizzico di elaborazione propria di un concetto. Chi ha voglia di leggere qualcosa che sia più di 5 righe oggi?
Prendiamo il dramma di questi 800 morti. In questo caso prima di lanciarsi in spot sommari, quanti hanno avuto voglia di approfondire che cosa e chi è un profugo, cosa lo distingue dall’essere solamente un immigrato? Oppure chi è un richiedente asilo, quali sono le normative nazionali ed europee, quali le matrici storiche di certi eventi, da dove vengono e dove vanno queste persone su cui tanto rapidamente si è disposti a mettere una foto dal barcone o ancor prima la foto di un cadavere? Farsi queste domande e cercare le risposte è il primo passo per abbattere quei muri del pregiudizio così alti e spessi… abbattere la semplificazione.
Io un po’ di politica l’ho fatta, un po’ di libri nella mia vita li ho studiati, qualche trasmissione televisiva l’ho guardata. Ma in questi giorni non me la sono sentita di fare una semplice moina mediatica. E sapete perché? Perché purtroppo l’avevo già fatta, come probabilmente tutti voi, in altre occasioni simili. Questa non sarebbe stata la prima volta.
Eppure questa volta è sembrato tutto diverso, ma non lo è. Perché è il numero intero (800-900 persone) ad essere diverso, ma il problema è sempre lo stesso. Perché il problema esiste da tanto tempo, perché tragedie così non importa che tocchino 10 o 100 o 900 persone per essere trattate diversamente. E così sono voluto scappare dal qualunquismo che purtroppo ha invaso il dibattito,5 dopo il rispetto unitario delle prime ore. E ho letto, ho letto molto. Ho letto i report di Amnesty international, ho letto articoli condivisibili e non. Ho letto le analisi dell’UNHCR (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati).
Nel mentre io leggevo, la battaglia intorno a me è diventata in poche ore una sfida tra accoglienza e paura dello straniero, tra integrazione e delinquenza, tra cultura e religione. Un muro contro muro che è tutto di pancia, poco di ragionamento. La solita semplificazione.
Per cui vi suggerisco un’altra chiave di lettura. Quella su cui mi sono soffermato anche io. Ovvero lo status di rifugiato, l’affermazione classica per cui questi uomini e donne stiano invadendo l’Europa ed in particolare l’Italia. Mi sono soffermato su Dublino III e sull’intervenire su questo per migliorare la situazione.
Non ci vuole molto per capire che le guerre del nostro tempo e le varie crisi abbiano causato milioni di profughi e rifugiati. La richiesta di asilo ed il riconoscimento dello status di rifugiato si inseriscono qui: coloro i quali non possono o non vogliono avvalersi della protezione del proprio Paese, pensiamo alle persecuzioni religiose o etniche che subirebbero, fanno richiesta d’asilo altrove. Sfatiamo subito un mito: non è vero che tutti corrono in Italia. Pur di salvarsi la vita, il paese in cui si tende a rifugiarsi è il più prossimo.
Dati: i primi Paesi al mondo per numero di rifugiati accolti non sono i Paesi più sviluppati, ma sono gli Stati al confine di Afghanistan e Siria. Pakistan 1,6 milioni, Libano 1,1 milioni, Iran 982.000. Poi ci sono i Paesi limitrofi al Sudan come l’Etiopia 587.000, il Kenya 537.000 o l’Uganda 358.000. Da questi numeri si possono subito fare due valutazioni. La prima sul tema delle politiche per l’integrazione, la seconda sul rapporto numerico tra rifugiati e numero di abitanti. Pensate che la Siria o l’Uganda abbiamo politiche per l’integrazione adeguate? O forse politiche adeguate sul come vengono gestiti questi enormi flussi di rifugiati sono indispensabili per non creare polveriere etniche e religiose che possono favorire l’odio ed il terrorismo? Non c’è da stupirsi se l’Isis sia riuscito a penetrare tanto in fretta e tanto nel profondo di diversi paesi. Ma facciamocela anche in Italia questa domanda. Italia dove il rapporto tra rifugiati ed abitanti è insignificante rispetto a queste realtà. Basta dire che trattandosi di paesi con popolazione mediamente molto inferiore rispetto a quella dei paesi Occidentali, questo rapporto proporzionato all’Italia significherebbe avere nel nostro paese più di 9 milioni di rifugiati. Ad esempio, in Libano ci sono 247 rifugiati ogni 1000 abitanti. In Europa? Malta ha 23 rifugiati ogni 1000 abitanti, la Svezia 12, l’Italia 1 ogni mille. La seconda domanda è: vengono davvero tutti in Italia? In Europa il primo Paese per numero di rifugiati è la Francia 238.000, poi la Germania con quasi 190.000, il Regno Unito 126.000. L’italia? I rifugiati accolti sono 76.000. Curiosate qui.
Da questi numeri semplifico io adesso. L’Italia ha un problema che si chiama regolamento di Dublino. Riguarda le modalità di richiesta d’asilo. Copio ed incollo la parte giuridica. “L’individuazione delle responsabilità avviene in base a criteri gerarchici che i paesi membri sono tenuti ad applicare nell’ordine di importanza in cui sono elencati nel regolamento: paese in cui risiede un membro della famiglia del richiedente che ha lo stato di rifugiato, o la cui richiesta di asilo è in corso di verifica; paese che ha fornito al richiedente un permesso di soggiorno o un visto di transito lungo il confine illegalmente varcato; se queste due circostanze non si verificano, qualora il richiedente sia entrato nel territorio di un paese membro nel quale non è richiesto il visto, quel paese è responsabile della presa in carico della richiesta di asilo. Se nessuno dei tre criteri è applicabile, il primo paese membro nel quale il richiedente asilo sia sbarcato è tenuto a prendere in esame la sua richiesta.”
Ecco che generalmente sono la Grecia o l’Italia, i paesi della zona UE su cui grava non solo il peso maggiore degli sbarchi per la prossimità ai territori dei conflitti, ma anche l’applicazione di Dublino. Si arriva nel nostro paese e parte l’iter burocratico. Un iter lungo. Spesso passa un anno prima di risolvere una singola pratica. Si capisce da queste ultime parole che o il tema dei richiedenti asilo e dei profughi diventa prioritario per tutta l’UE e gestito comunitariamente oppure l’Italia da sola non può fronteggiare questo fenomeno che la tocca perché vicina, e spesso solo di passaggio. Poi c’è il tema dei controlli, dell’integrazione, dell’accoglienza etc etc etc. Un sistema complesso. Ma da qualche parte dobbiamo cominciare e che il problema di quello che accade nel mondo debba essere rilevante solo per il nostro paese, mina quel senso di coesione ed appartenenza ad un organismo comunitario.
Partiamo anche da qui con la discussione, non solo da un tweet, non solo da una foto.