Le cronache degli ultimi giorni hanno riportato alla memoria alcune delle immagini televisive di repertorio: le proteste degli anni novanta degli allevatori lumbàrd – e di altre parti dello Stivale – per le multe comminate dalla Commissione Europea a causa del mancato rispetto delle cosiddette “quote latte“. Chi non si ricorda i trattori che bloccavano le autostrade del nord Italia sversando quintali e quintali di liquami? E la mucca Ercolina, portata sin davanti al Papa?
Correva l‘anno 1984 – 31 anni fa – e l’Europa, dopo anni di discussione circa le modalità per fermare la rapida discesa del prezzo del latte, la cui produzione era stata foraggiata fino a quel momento con contributi pubblici che premiavano chi più produceva, arrivò ad una conclusione. Bisognava ridurre la quantità di latte immessa sul mercato. Nacquero così le “quote latte”, cioè dei limiti alla produzione di latte basati su una ricognizione del potenziale dei singoli Stati, calcolato sulla produzione in corso durante quell‘anno. L’Italia venne accreditata per circa 8 milioni di tonnellate. Troppo basso il limite, lamentarono in tanti: secondo questi, si era fatto riferimento a censimenti delle stalle risalenti ad alcuni decenni precendenti. Ma tant’è: tutto il latte prodotto in più fu dichiarato fuorilegge e a chi lo avesse prodotto sarebbe stato applicato un prelievo. La multa. I nostri allevatori sono stati talmente bravi a rispettare i limiti che sono riusciti ad accumulare 4,4 miliardi di euro di sanzioni. Di chi è la colpa? I politici scaricano tutto sugli allevatori, rei di aver preso sotto gamba le norme; gli allevatori buoni insorgono, chiamando in causa gli allevatori ”cattivi”, accusati di concorrenza sleale, i quali, a loro volta, rimandano la palla ai vecchi politici di allora. Questi, a detta loro, avrebbero garantito che quelle fantomatiche multe non sarebbero state pagate.
La realtà, come sempre, sta nel mezzo: negli anni ottanta nessuno aveva ben compreso il meccanismo delle sanzioni e, forse, chi lo aveva capito si vedeva bene di spiegarlo per motivi di carattere elettorale. Così, il primo esecutivo a dover fronteggiare il pagamento delle multe fu il primo Governo Berlusconi, al cui interno aveva però un partito – la Lega Nord – in quel momento in rapida espansione e che traeva la propria forza dallo scontento verso la politica tradizionale e che, quindi, si vedeva bene di calcare la mano sugli allevatori, per lo più padani. Fu così che la patata bollente passo in mano a Prodi che disse:”le multe si pagano”. Scontri, cortei, blocchi di autostrade, letame ovunque. Nei successivi anni, le sanzioni saranno pagate da pochi e a rate. Ma a staccare l’assegno più grande ci penserà lo Stato italiano, per un importo pari a circa 2 miliardi di euro. La Commissione Europea interviene a Luglio 2014 denunciando un aiuto di stato illegittimo: le infrazioni secondo l’Europa devono essere pagate – giustamente – dalle imprese e non da tutti i cittadini. L’Italia si impegna quindi a recuperare il dovuto. Ad oggi, un terzo dei 2 miliardi è stato già notificato attraverso cartelle, 500 milioni circa sarebbero oggetto di contenzioso, sulla restante parte il Governo starebbe lavorando. I 2 miliardi che mancano all’appello sarebbero ormai inesigibili, essendo riferibili al primo decennio di applicazione del regime delle quote.
Ma qual è la situazione attuale? Ad oggi, l’Italia produce 11 milioni di tonnellate di latte, 9 le importa dall’estero. Perché un quantitativo così alto? Sì, vero, ci sono state – perché, per chi non lo sapesse, il regime è stato abolito il 31 marzo scorso – le quote latte a bloccare un possibile aumento della produzione. Ma c’è un motivo più concreto che ha penalizzato – e penalizzerà nei prossimi mesi, ecco il perché delle proteste degli ultimi giorni (guarda il video delle proteste) – gli allevatori italiani, i quali adesso temono l’apertura del mercato e l’abolizione delle quote, tanto vituperate quando erano in vita, tanto rimpiante adesso. Il nostro latte (crudo, alla stalla) costa circa 35 centesimi di euro al litro: nel 2014 ne costava 42, 39 l’anno precedente. In termini percentuali, il 9% circa in più del latte statunitense e il 15% in più in media del latte europeo. Tanto per capirsi, il latte tedesco a settembre 2015 era prezzato 27 centesimi, il latte francese 32 centesimi, quello slovacco 26, quello olandese 25, quello delle repubbliche baltiche tra i 23 e i 20 centesimi. Se guardiamo oltre i confini europei, si passa dai 72 centesimi al litro del Giappone, ai 23 dell’Uruguay e ai 21 della Nuova Zelanda (dati disponibili su www.clal.it).
È chiaro a tutti, quindi, che l’Italia – e i suoi allevatori – non possono certo competere con i produttori europei e mondiali in termini di prezzo. Il Governo, con in prima fila il Ministro Maurizio Martina, sta facendo la sua (piccola) parte: nella nuova legge di stabilità, salvo modifiche, sarà aumentata la compensazione Iva per gli allevatori (circa 35 milioni di euro); è stato creato un fondo di 50 milioni, il cosiddetto Fondo Latte di Qualità, a sostegno delle ristrutturazioni del debito delle stalle italiane e che dovrebbe garantire altrettante somme quantomeno nel biennio; sono stati infine richiesti (e ottenuti) 25 milioni di euro direttamente dall‘Unione Europea come contributo straordinario per il sostegno ai settori in difficoltà – gli stessi contributi sono stati più volte elargiti alle aziende finlandesi e baltiche che hanno visto ridursi nell’anno in corso il proprio mercato a causa delle contro sanzioni russe.
La questione principale, però, è strutturale e non può essere semplicemente risolta con dei contributi a pioggia. Dobbiamo puntare – oramai sembra diventato un mantra per tutti i settori, ma per l’agroalimentare forse lo è di più – sulla qualità del nostro latte, che ci è stata più volte universalmente riconosciuta. Bisogna riconvertire tutte quelle produzioni di massa che impiegavano le più produttive mucche Frisona-Holstein – e, quindi, bene il Fondo Latte – in allevamenti che valorizzino le diverse qualità nostrane di latte.
Condivido l’appello di Carlo Petrini (Slowfood) pubblicato su Repubblica lo scorso 30 marzo: “Il recupero di un’identità delle produzioni nazionali, la possibilità verificata di indicare il luogo di produzione, ma anche e soprattutto di dare conto al consumatore sulla dieta delle bovine, sul fatto che esse siano trattate secondo i più avanzati standard del benessere animale, così come il recupero di filiere di latte locali da razze autoctone, sono le chiavi per ricostruire il valore del latte italiano. C’è molto da fare, a partire dalla redistribuzione del reddito lungo la filiera (per ogni brick di latte venduto, l’allevatore non incassa che il 25-30% del prezzo) e dalla restituzione di anima e prestigio ai grandi formaggi italiani che (..) soffrono da tempo di un processo di trasformazione in commodity che ne deprime il prezzo e soprattutto ne brucia il valore agli occhi dei consumatori. Tutte le piccole produzioni, sia di latte sia di formaggi dalla lunga storia e dai gusti indimenticabili, che hanno resistito nonostante le difficoltà e il loro essere state in qualche modo anacronistiche rispetto al sistema dominante per decenni, sono un esempio da seguire e un insieme di micro-modelli locali da imitare e ridiffondere in ogni territorio.“
Basta piangere sul latte versato. Pensiamo a mungerlo bene adesso.