Bisognava parlare di Senegal, a questo giro. E c’è un libro molto bello, per questo, scovato per caso, che presto offrirà l’occasione di farlo. Invece oggi ne va festeggiato un altro, uno che è uscito proprio un anno e mezzo fa. Si chiama In fondo, suona – Storie dell’underground livornese dagli anni Novanta a oggi. Il primo grazie va alla casa editrice che l’ha fatto vivere, la bella e sfacciata piombinese “Il foglio letterario”. Il secondo ai suoi due autori: né storici né archivisti, ma musicisti, giornalisti e scrittori, Dario Serpan e Alessio Santacroce si sono presi la briga di lasciarci questa cosa, che fra trent’anni probabilmente sarà ancora più inestimabile di oggi.
Le parti del libro sono due e sono molto diverse fra loro, tanto che chi, come me, fosse un eroinomane della letteratura ha diritto di essere avvertito: In fondo suona è un quasi libro, perché di raccontate ci sono solo le prime 49 pagine. Eppure da livornese di classe Ottantacinque in quelle prime pagine mi ci sono persa. E’ Serpan che scrive, e scrive molto bene. Deliziosi i ricordi più lontani di Luca Faggella e di Toto Barbato, il primo per la scena dei Cheetah Chrome Motherfuckers che nel 1979 suonano alla Casa della cultura e la sfasciano, il secondo per la testimonianza di come negli Anni Ottanta non di rado gli spazi per suonare fossero, per necessità, quelli dell’oratorio. Spunta anche la solida e antica collaborazione con Pisa, che in musica – e in nessuna altra cosa – è stata spesso sorella delle iniziative livornesi.
Ci sono alcune cose note a una misera nativa degli anni Ottanta come me solo per sentito dire: come la leggenda del Cave, quella delle ex colonie al Calambrone, la compianta esistenza dei fondi di Via Diaz. C’è la storia delle persone, dello scenario dei gusti e delle tendenze. C’è il ricordo delle tragedie, prima fra tutte quella che nel 1993 uccise Fabio e Roberto Cappanera, i capostipiti di una famiglia “che si dedicava tutta al rock” e che “in una città bacchettona per quanto di sinistra era vista come extraterrestre”. Poi lieve come un vascello che spunta dalla nebbia ecco Il fondo, lo spazio sotterraneo davanti al mercato, dove si è fatta una storia musicale che ho visto anch’io. I fondi Cavallotti, scrive Serpan, sono stati per quasi vent’anni “il polmone della produzione di musica in città”. I primi a entrarci, continua, furono gli Appaloosa e i Monotorakiki di Micheal Rotondi e Luca Santeramo. Poi ci passarono i 7 Years, i Bad Love Experience, i Radio Mosquito, i Lip Colour Revolution, gli Zedded, gli Elephant on air, i The Monkey blue trip, i Jackie-O’s Farm e molti altri. Perfetta la fotografia di Serpan di quale sia il senso del “fondo” a Livorno: “molto più di una sala di prove”, se questo tipo di spazio è finito anche nel titolo del libro è perché gli adolescenti livornesi ci si rifugiano da generazioni, ci vivono la musica e ci vivono la loro vita. Alcuni faticheranno a staccarsi, anche, da queste sorta di prima casa comune, resistendo all’idea di portare in giro la propria attività di musicisti e preferendo difendere quell’idea insieme di “intimo” e di “immobile”.
Ma queste considerazioni, valide per tutti gli altri fondi livornesi, non potranno valere per le sale sotto il Mercato centrale: i fondi Cavallotti sono stati sgomberati nel 2010. E’ successo in fretta e con una motivazione piuttosto vacua – il disturbo che avrebbero arrecato ai residenti della zona, difficile però da immaginare considerando la perfetta insonorizzazione delle sale sotterranee. Così la questione si lega alla storia politica recente della città: al modo in cui la seconda amministrazione Cosimi ha mandato in fumo le promesse di destinare uno spazio esclusivo ai musicisti, acquistando un edificio sugli Scali della fortezza nuova, ad alcuni momenti squallidi delle feste del Partito in cui tesserati e gruppi invitati a esibirsi si prendono a male parole proprio rispetto alle denunce dei secondi della scarsa attenzione del Partito verso le loro istanze. Serpan parla di un rapporto “faticoso” fra amministrazione e musicisti, ed ha indubitabilmente ragione: si tratta di quel retaggio che riguarda anche le difficoltà della famiglia Cappanera, del rapporto fra un ex cultura organica PCI e un movimento diffuso e costituzionalmente disorganico come quello della cultura musicale. Ed è un peccato, e continua ad esserlo, e lo sarà fino a quando non si prenderà sul serio il dato che Rolling Stones pubblicò in un articolo nel 2005: “Livorno è la seconda città al mondo, dopo Los Angeles, per rapporto fra numero di abitanti e numero di gruppi musicali esistenti”.
Nel medioevo contemporaneo dell’identità livornese la vecchia cultura del PCI rischia di volatilizzarsi anche lei, e invece di godere del contrappasso, chi scrive prova a immaginarsi una rinascita in cui la musica trovi spazio insieme proprio magari alla musealizzazione della nostra storia comunista, e insieme – è un altro tema importante, al cinema.
Senza correre ancora fra le prime 49 pagine di In fondo, suona, che vale la pena leggere, un ultimo accenno alle seguenti duecento, dove il libro diventa una galleria. Ci sono quasi tutti: lavoro preziosissimo di contatto, dialogo, messa in visibilità di 162 ritratti di formazioni musicali di ogni genere, tutte attive nella provincia di Livorno. A parte i nomi maggiori come Tres, Dario Kappa (Cappanera), Virginiana Miller, Dario Faggella, Snaporaz e Strana Officina, ci sono progetti appena avviati e progetti che si reggono sulle loro gambe già decisamente bene, dal punk all’ambient. Per ogni ritratto c’è la storia della formazione, ‘mito dell’origine’ che insieme alla storia delle esibizioni costituisce per ogni gruppo il proprio vero capitale, e che ogni gruppo da una parte custodisce, dall’altra sarà sempre costretto a rivendere, ripetere, ritoccare.
Fra i 162 ritratti, corredati da altri sei altrettanto importanti, ognuno troverà il filo delle sue orecchie e della sua memoria. E lo farà di più chi come me è sui trenta, perché In fondo suona è un libro perfetto, oggi, proprio per rimettere in ordine le teste della mia generazione di livornesi. Ci si ricostruisce dentro un proprio archivio, più solido, più consapevole, se non proprio ci si trovano tesori – perché di questi 162 progetti difficilmente non ce ne sarà uno o una dozzina geniali, di cui prima non si sapeva niente. Poi l’ultimo scarto è di nuovo un pulsare di sangue e piacere, perché l’archivio è anche la memoria di quello che si è amato. Così rivedo le mie prime due passioni livornesi – i Monotorakiki, che però nella galleria mancano – e gli Appaloosa. Ritrovo l’epica della porta accanto del grande Tozzifan, dalle cui labbra pendo e penderò sempre. Leggo di N Sambo e sento la qualità del bellissimo Sofà Elettrico del 2011. Trovo anche La Maison Orchestra, a cui devo l’ascolto di Vaine House, nato pochi mesi fa.
E poi ovviamente trovo lui. Lui che mi piace di più solo De Andrè, di lui. Lui che è rimasto a vivere a Livorno, mentre Nada e Virzì se ne sono andati. Anch’io me ne sono andata, per andare a vivere nella patria di zio Berto. Ma In fondo suona l’ho portato a Bologna e lo tengo sul tavolo: e a volte mi fa pensare che è come se a Livorno sulla musica avessimo l’album delle figurine già finito, e per questo è difficile capire com’è bello.