La scorsa settimana avevo scritto delle note sull’esperienza della donazione del sangue e su alcune questioni politiche (una principalmente) che si legano a questo tema. Mi è stato detto che si trattava di un articolo scorretto, confuso e superficiale, così vorrei aggiungere alcuni chiarimenti qui, perché superficiale, in effetti, quell’articolo lo era. Se è vero che fare pubblicità a qualcosa non equivale necessariamente a conoscerla, io sicuramente ho fatto poco nel secondo senso rischiando nello stesso tempo di dare l’idea che donare il sangue non sia un gesto di profonda civiltà. Non è questo che penso. Donare il sangue lo è, un gesto utile e democratico, e la spaventosa importanza della raccolta costante di sangue è evidente non appena qualcuno che amiamo o noi stessi, per le più svariate ragioni, si trova ad aver bisogno di una trasfusione.
Provo in cinque punti a chiarire le cose più importanti.
Uno. Scrivevo che trovo ingiusto e discriminante che in molti paesi europei donare il sangue non è un diritto delle persone di sesso maschile di orientamento omosessuale. Non ho specificato che in Italia le cose sono diverse. Il divieto è scomparso nel 2001, attraverso l’emanazione del decreto ministeriale numero 78 del 26 gennaio, ad opera del ministro della sanità Umberto Veronesi. La normativa di riferimento, oggi, nel nostro paese, è il Decreto Ministeriale 3 marzo 2005: “Protocolli per l’accertamento della idoneità dei donatori di sangue e di emocomponenti” che nell’Allegato 4 stabilisce i criteri di esclusione permanente e temporanea. Come ricorda una nota di Avis Italia del 2002, “le norme vigenti non intendono discriminare a priori una “categoria” di persone, ma assegnano al medico responsabile della selezione del donatore il compito di individuare, indipendentemente dall’orientamento sessuale e dal genere, eventuali comportamenti sessuali a rischio cui conseguono l’esclusione permanente o temporanea”. Il problema rimane su un piano sovranazionale, e invito per questo chi sta leggendo a documentarsi, per esempio attraverso la ricognizione accurata della situazione paese per paese che Patrick Grosse pubblica il 25 maggio 2015 su CaféBabel . Tornerò su questo punto fra poco, parlando del questionario che occorre compilare prima della donazione.
Due. Mi lamentavo del fatto che sia un’avvertenza comune quella per cui le donatrici di sesso femminile non possano donare durante il periodo mestruale. Su questo punto non posso scusarmi: non esiste infatti alcun criterio medico stabilito a livello nazionale che motivi quest’avvertenza. Si legge però su moltissimi opuscoli informativi sulla donazione, in svariate regioni e città italiane, che “si consiglia tradizionalmente e in via prudenziale di evitare la donazione durante il ciclo mestruale”. Ora io sono libera, come tutti, di avere un’opinione su questa consuetudine. In questo senso posso anche precisare che c’è già, nelle regole invece nazionali dei protocolli di prelievo, un elemento ‘cautelativo’ rispetto alla donazione di persone di sesso femminile. E’ quello che stabilisce a due volte al massimo l’anno, anziché a quattro, il numero di donazioni consentite per le donne non in menopausa. Ora il problema è appunto che se si sovrappongono il criterio di sicurezza previsto dalla legge e quello prudenziale legato piuttosto alle “tradizioni” il numero di volte in cui una donna può donare scende in picchiata. Basta un rapido calcolo: se già le donne possono donare la metà degli uomini, il criterio ‘cautelativo’ delle mestruazioni sottrae un altro 25 per cento al periodo annuale in cui una donatrice avrebbe il diritto di farsi fare il prelievo.
Tre. Ho scritto in modo scanzonato che non mi piace il verbo donare. Ed è vero, perché quel verbo mi ricorda un concetto proprio alla liturgia cattolica, e io non sono credente. Preferirei cambiare il termine e crearne uno nuovo, come per esempio “trasferimento volontario di sangue”. Il “volontario”, comunque, chiama in causa una questione che mi sembra molto importante menzionare e a cui io non avevo fatto cenno, quella cioè, delle forme in cui si può pensare una trasfusione umana. Nel mondo esistono ancora diversi casi nazionali di donazione retribuita, e purtroppo la storia ha conosciuto anche casi di donazione obbligatoria. Un esempio di contesti in cui la donazione è retribuita è quello di cliniche private che sia in Germania, che in Cina, che in Russia nel 2016 offrono un (piccolo) compenso per ogni donazione (consiglio per esempio un ottimo articolo del Guardian del gennaio scorso; una brutta pagina, legata alle donazioni obbligatorie, è per esempio quella crisi della Ddr, dove verso la metà degli anni Ottanta sembra che ai prigionieri di guerra fosse imposto il prelievo, al fine di rivendere il sangue, o quella delle pratiche del “mercato del sangue indiano” ancora del tutto fuori controllo ( si veda a questo proposito l’articolo della BBCNews di Anu Adand del 25 gennaio scorso “Blood for sale”).
In pratica se il termine “donare” non mi entusiasma, sono certamente d’accordo con l’idea che sia l’unico modo giusto e democratico di organizzare le trasfusioni. Un punto ancora, a favore della forma della donazione volontaria, viene dai rischi che potrebbe avere, in un’ipotesi estrema’, l’istituzione di una donazione periodica per tutti gli individui in buona salute: fiumi di studi dimostrano che il modo più sicuro di ottenere sangue sano per le trasfusioni è proprio quello di appellarsi al senso civico di chi dona in modo spontaneo.
Quattro. Ho scritto che l’iter delle analisi (ripetute in due momenti, nell’arco di un mese, eseguendo le seconde nel momento stesso del prelievo) rende superflua l’esistenza di un questionario in cui l’imminente donatore deve identificare possibili ragioni di rischio che lo portino, in caso, ad autoescludersi dal prelievo. In effetti questo è stato il punto in cui sono stata più imprecisa: non è vero, infatti, che le analisi siano in grado di rilevare tutti i rischi che si possono far correre a un ricevente. Ci vuole una dose di autocoscienza, legata alla consapevolezza del periodo di incubazione di certe malattie e all’invisibilità di certi tipi di farmaci nel sangue – come per esempio lo rimangono dei banali antinfiammatori, anche se assunti in dosi massicce. Ancora, il questionario costituisce un documento legale che tutela chi si occupa praticamente del prelievo dall’eventuale insincerità del donatore, con tutte le sue possibili conseguenze. Quello che trovo ipocrita nel questionario riguarda esclusivamente quello che sarebbe opportuno dichiarare o meno nel caso di rapporti anali – ed ecco che si torna alla spinosissima questione (del punto Uno) di “che cosa siano i rapporti sessuali a rischio”; di “chi sia a rischio” e di “che cosa sia il rischio”. Non ho spazio per palare estesamente qui di tale questione, e mi limito a scusarmi con chi ha percepito il mio tono come troppo “critico” nell’articolo precedente. Spero che avrò la possibilità di riparlare estesamente di questa questione e che potrò chiarirmi ancora meglio.
Cinque. Ho scritto, con un’altra battuta poco felice, che mi fido di più dei bolognesi che dei livornesi, in fatto di donazioni. Una ragione molto più corretta per dire che è meglio donare a Livorno che a Bologna (questa era la mia scelta) è che la regione Emilia Romagna ha raggiunto l’autosufficienza trasfusionale (fonte: salute.regione.emilia-romagna.it). Vale a dire che al pari di Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Piemonte, l’Emilia Romagna è stata in grado di organizzare le donazioni raggiungendo il numero calcolato delle trasfusioni necessarie ogni anno. Non così, non ancora, per la Toscana.
Dette tutte queste cose, non cambia la mia opinione su un aspetto fondamentale di tutto quello che può essere legato alla civiltà: l’ignoranza va combattuta, non usata. Per questo non posso cambiare idea sul fatto che sia ai donatori che a tutti quelli che non hanno mai donato, sia utile sapere il più possibile di che cosa significa farlo, anche se oltre un certo grado di informazione le cose si fanno più complesse e qualche volta scomode. La mia personalissima opinione è che le migliaia di donatori, associati ad associazioni di donatori, medici, infermieri e attivisti che lavorano e si battono per allargare la consapevolezza e il numero dei volontari, non dovrebbero temere le ombre. Alcune inevitabili contraddizioni, certi limiti e certe questioni molto complesse legate alla donazione, dovrebbero solo servire come lenti di uno sguardo sempre più nitido sulla realtà e a guardare più lontano nel futuro di questa pratica