Trent’anni fa, quando sono nata io, Livorno era una città nel pieno degli anni Ottanta. Ed è per questo che ricordo quasi solo enormi orecchini di bigiotteria, ombretti pesanti, fumo di sigaretta e l’ictus di mia madre. Poi sono arrivati gli anni Novanta, e ricordo Farouk Kassam, le foto di Ernesto Guevara nella casa della mia amica, il cane lupo che morì prima del prozio e noi nipotini che avevamo scommesso tutti sul prozio, porco cane.
La seconda metà degli anni Novanta sono stati i soprusi a scuola, perché la mamma non l’avevo a portarmi e riprendermi alle elementari, e perché mio padre e mia nonna non mi insegnavano abbastanza a nascondere le mie stramberie e a fare la bimba sicura di sé e ammirevole. Ma sono stati anche gli anni della scoperta dei Quattro Mori, della storia del Voltone, delle leggende sul manicomio di Villa Corridi, dei primi pomodori di mare grattati con il retino, delle Feste dell’Unità, dei sandali persi, e ripersi, e ripersi, e ripersi. E di Batman e della Storia infinita visti al cinema. Ho toccato la fine delle medie con la certezza che Livorno fosse un posto magico, pieno di angoli, di panorami, di prati dove avrei potuto perdere la verginità possibilmente entro l’estate prima delle superiori e di ex comunisti che avrebbero combattuto per sempre contro il governo Prodi – chissà, poi, mi chiedevo, se alla fine alleandocisi, e andando tutti a bere il lambrusco. Non so perché all’epoca per me il Lambrusco fosse il solo e unico nettare della rivoluzione planetaria.
Nel frattempo tuttavia la divaricazione era cominciata. Avevo scoperto Maupassant; la decadente dolcezza dell’essere guidatrice di un motorino; la violenza con cui le mie amiche mi avevano derisa, emarginata; la cattiveria con cui avevo scaricato il mio primo amore che puzzava di piscio; Shakespeare, Agatha Christie, Balzac, Cechov, Anna Banti, Elsa Morante, Tabucchi. E continuò a crescere. Mi raccontarono tutto del Gabbro, delle origini colligiane della mamma e dei nonni, e poi arrivò la seconda tragedia in casa e finii di sperare. Mi misi a vivere sul niente. Cosimi veniva al Classico a fare i comizi mentre noi facevamo occupazione, mi innamorai di un fotografo e poi ancora, e poi amai Eschilo, e Euripide, e andai malissimo a scuola e volevo solo che finisse. E in tutto questo l’estate mi scottava e il vento mi faceva venire gli occhi lucidi. La notte pensavo alle meravigliose lezioni di filosofia del Baglini, e poi odiavo e un po’ adoravo il Baldini, e il suo greco. Le mattine discutevo con la Monaco e sbirciavo la carnagione della Nannipieri.
Non ero la prima della classe, non lo sono mai stata, a scuola. Per me la vita era fuori. In quegli anni ho incontrato, amato, portato a letto, invaso, ascoltato alcune decine di livornesi di sesso femminile e maschile, a cui devo ancora tutti i miei auguri e molti sospiri. Ho copulato a Ciano, ho scoperto il parco delle colline pisano livornesi, ho scavalcato per entrare all’ippodromo e passato notti in Fortezza nuova che non finivano mai. Ho anche scoperto che si pagava, questa libertà. E così, come tutti, ho imparato a cercare il punto più debole, quello veramente più scoperto, praticamente di chiunque. Feci una lista dei peggiori cinquanta nomignoli che mi avrebbero potuto dare, e si rivelarono più fantasiosi di quelli che di fatto mi diedero. Imparai che ci pesavano, noi femmine, su una lama infima, crudele, per metterci in competizione: sai che loro sono molto più belle di te? Ai maschi non andava meglio, ma mi faceva più pena che rabbia. Imparai anche che non mi piacevano i gruppi, preferivo i rapporti uno a uno. I legami più intimi. Imparai anche che questa nostra crudeltà era perfetta perché era agonisticamente accessibile a tutti.
A Livorno non serviva essere ricchi o intelligenti – qualità difficili da riguadagnare rispetto allo status di partenza, ma bastava essere furbi e belli. Anzi, anche meglio, scoprii che essere furbi consegnava automaticamente anche alla bellezza. Ci furono un ultimo paio di anni leggendari, in cui me ne ero già andata ma portavo tutti a Livorno. Macchinate dall’Università a Siena, a far vedere a tutti questa città senza fama, ma senza pari. Anni in cui mi scannavo con campani, marchigiani, grossetani, siciliani, veneti, emiliani, perché sostenevo che ero nata nel posto migliore del mondo. Anni in cui uscivo vestita di stracci, d’estate, a Livorno, come tutti, e scopavo, e non mi importava niente di condividere una lezione di Boldrini o una di Calabrese. Anzi. Mi sentivo, come da piccola, sbagliata, perché l’università mi stava piacendo molto.
Poi la divaricazione è diventata strabismo. Di colpo il mondo si è allargato. Ho respirato Firenze, ho respirato Bologna. Ho odiato Parigi, per un anno, ma ho sentito cosa volesse dire essere davvero in un frullatore. Livorno non è un frullatore, assomiglia più a una macina. Ho cominciato a passare notti sveglia su Foucault, Adorno, Greimas, Chase, Carr, Levi Strauss, Hjelmslev, Ricoeur, Benveniste, Goffman, Searle, Landowski, Marsciani, Marrone, Morin, Goodwin, Marin. Ho scoperto che il bianco dell’occhio si chiama sclera e che Predappio è in provincia di Forlì, che il palombo è uno squaletto e che le perle sono il modo in cui un’ostrica isola un corpo estraneo accidentalmente penetrato dentro le valve. Ho fatto anche scoperte più sconcertanti, come quella che il sesso anale è cosa anche per suore (volenterose, certo), che mi sono lasciata sfuggire, senza accorgermene, il tempo della vita adatto per fare un’orgia, che qualsiasi essere umano di sesso femminile oltre il menarca può allattare – basta stimolare il capezzolo con un tiralatte per almeno una settimana.
E nel frattempo la letteratura è scorsa. È stata sempre la mia marea, cara come quelle vere. Ho letto, leggo, tutto quello che posso, cercando di schivare autrici e autori defunti, per la convinzione che ogni notte perdo cinque, otto ore che potrei passare leggendo il capolavoro di un o un’esordiente. La mia mamma rotta, afasica, e inabile mi ha passato De Andrè e il cinema, mio padre mi ha passato Bach, Monteverdi e Buxtehude. Ma la letteratura contemporanea è mia. Mi sono risvegliata sui ventisei anni come da un sogno, e ed ero oltre lo strabismo. Le spalle pesanti, un orizzonte tragico. Non credo nel matrimonio, non credo nella convivenza, non credo nella mia maternità prima dei quarantacinque anni. Lavorare è dura, e le tragedie di famiglia diventano contributi finanziari senza cui non mangerei. Mi sono svegliata con la fame e la sete della qualità nelle persone. La qualità nelle persone ha molte forme. A me piacciono gli umani caldi, ragionevoli nel fondo, abbastanza disperati da ascoltarsi. A Livorno ce ne sono moltissimi, secondo me. Ogni cosa che imparo mi rende più ignorante, perché materializza le ventidue cose immediatamente oltre quella che ho imparato delle quali in questo preciso istante non so niente. Ho scoperto la Livorno dei grandi, direttamente dopo quella dei ragazzi e non è stato semplice. Affatto, davvero affatto semplice. Ma me la sono lasciata entrare dentro. Ho cercato di essere ignorante e cauta.
Lui l’ho conosciuto leggendolo. Ho letto prima il primo libro, poi il secondo, infine il terzo. Fra il secondo e il terzo siamo andati a bere un caffè e siamo diventati amici come i cani, o i gatti, non senza conflitti o gare al silenzio. Non condivido punto per punto le sue opinioni politiche, come non condivido le mie. Però una cosa la so: se dopo anni di strabismo mi ci devo mettere io, emigrata, troppo giovane per un qualche tipo di autorevolezza intellettuale in qualsivoglia tipo di mondo intellettuale, a difendere la testa adamantina di Simone Lenzi, siamo davvero in una città che non ci merita. Che non merita noi, intendo, perché Livorno meriterebbe qualcosa di meglio di noi.
Leggetelo, leggete tutto quello che scrive e cercate di ricordarvi che avete in casa uno dei migliori autori della letteratura contemporanea nazionale. Ma non ve lo ricordate mai: in un’idea miope della lotta ai diritti, e delle trincee politiche, supponete che ci sia un Lenzi scrittore e un Lenzi politico. Beh signori la vita non va così; una città che pretende di mettere il suo più importante intellettuale nel cassetto si sta sparando in testa. Chi lo difende? Dove sono le istituzioni che dovrebbero capire quello che non si capisce con la pancia? Com’è che ci sono potuti essere dibattiti pelosi in cui ha fatto da solo la voce di una compagine politica, critica, civica? E com’è che la città non si accorge che gli è riuscito benissimo? Se qualcuno è capace di guardarsi allo specchio allora il consiglio è cominciate a cuor leggero da “Mali Minori” e siate consapevoli che la sua prossima riga ci seppellirà. Perché non riderete più forte di lui: glielo ha insegnato Livorno a ridere, e lui ride meglio di tutti, e chi fa finta di non saperlo è cieco. Mali Minori è davvero molto bello.