David Cameron ha perso la sua partita politica più importante. Ha fortemente voluto il Referendum sulla Brexit, scommettendo sulla sua capacità di convincere i britannici, e lo ha perso, in maniera altrettanto clamorosa. Il passo obbligato, adesso, è quello delle dimissioni, di fatto appena annunciate. E poi? Chi verrà dopo di lui? Farage appare troppo estremista per contendere ai laburisti e ai conservatori la guida del Regno. Certo è che la frattura all’interno dei conservatori è più consistente di quello che appare. I Tory sono sembrati quasi a disagio nel fronteggiare il risultato del Referendum; si sono fatti cogliere impreparati e serviranno mesi, molto probabilmente, per trovare una linea comune.
In questi mesi – da qui ad Ottobre, quando si potrebbe andare a nuove elezioni – c’è da aspettarsi una crescita degli indipendentisti dell’UKIP e anche dei laburisti di Corbyn che, per quanto più compatti, non risultano essere comunque la maggioranza. Interessante sarà, a questo punto, capire chi guiderà la Gran Bretagna nei prossimi anni, quelli decisivi per la sua fuoriuscita dall’Unione Europea ma anche per la sua tenuta (vedi in seguito). Analizziamo gli aspetti principali della Brexit.
Giusto votare su un tale tema? La domanda può sembrare banale a cose fatte, ma non lo è. Ha fatto bene Cameron a porre un tema così importante, di alta politica internazionale per intendersi, al vaglio degli elettori britannici, semplificando di fatto la complessità legata ad una permanenza o meno nell’Unione Europea, ad un secco Remain-Leave? Se si guarda la sua convenienza politica, appare chiaro di no. Come detto prima, il futuro politico personale di Cameron è segnato e verrà riportato nei manuali della politica come esempio di cosa un bravo politico non deve fare. Per trovare risposta alla domanda, però, conviene prendere per un momento le distanze dal caso Brexit e domandarsi, seriamente, se gli elettori abbiano diritto di decidere direttamente su tutto. E non si tratta del principio di autodeterminazione dei popoli, bensì della spinta estrema alla semplificazione che subiamo nella società odierna. Tutti sono esperti di tutto, con il risultato, ovvio, che nessuno sia esperto di niente. E’ giusto che la politica non sia trattata al pari di altre discipline scientifiche e sociali, dove si richiede – giustamente, aggiungo – una solida preparazione per poterne svolgere le funzioni? Oppure più semplicemente tutte le professioni stanno perdendo il riconoscimento sociale dovuto alle competenze accumulate con anni di studio e la politica con esse?
La questione è delicata, difficile da affrontare in poche righe, ma è giusto provarci: se quando ci si rivolge ad uno specialista per una visita medica, ad esempio, si demanda a lui una diagnosi e una cura per la quale non saremmo in grado di decidere, perché, in altri campi, come ad esempio la politica, questo principio non vale e un signore qualunque del Galles con un titolo di studio non elevato e che, magari, l’unico viaggio in terra straniera che ha fatto è stato una visita ad un parente londinese, deve decidere sul futuro del suo Paese nell’Europa? Dal sondaggio di YouGov appare che i più giovani e i più istruiti abbiano votato in larga maggioranza Remain. Ciò cosa significa? Lascio a voi le facili conclusioni. E rilancio: siamo sicuri che il suffragio universale, indiscriminato per provenienza sociale, culturale e per materia oggetto del voto, non sia da rivedere? Perché chiediamo a chi arriva in determinato Paese di sostenere un esame di conoscenza della relativa cultura nazionale e di educazione civica per poter godere dei diritti civici e chi, invece, nasce ma si disinteressa totalmente della vita politica ha il diritto assoluto di determinarla? E poi, la materia: se, ad esempio, la nostra Costituzione vieta referendum in materia di politiche fiscali e di bilancio un motivo ci sarà. Infine, una provocazione: ma un buon politico è quello che guida un popolo, dandogli una visione ampia e di lungo periodo o quello che da questo si fa guidare? Ai posteri l’ardua sentenza
Britannici più poveri. Le conseguenze economiche per i cittadini del Regno Unito non potranno che essere peggiori rispetto a quelle di partenza e ciò, almeno per i primi anni, per un semplice motivo: un percorso di uscita dall’Unione Europea è un percorso contro la storia. Un po’ come se l’Italia, dopo essersi unificata nel 1861 ed aver abolito i confini e i dazi tra il Granducato di Toscana, il Regno delle Due Sicilie, lo Stato Pontificio, ecc, avesse pensato di reintrodurli dopo venti anni. Il commercio sarebbe risultato di nuovo rallentato, le carrozze si sarebbero rifermate per lunghe code ai confini – pensate alla scena del fiorino in Non ci resta che piangere – e i migliori professionisti e letterati avrebbero avuto problemi a lavorare altrove. Probabilmente si sarebbero create tensioni tra gli Stati e, in ultima istanza, forse anche decisioni drammatiche. Un po’ quello che succederà alla Gran Bretagna adesso: i migliori avranno difficoltà a spostarsi per motivi di lavoro, allo stesso modo le merci e il denaro. Tutto andrà rinegoziato e l’incertezza sulle tempistiche e gli effetti dei nuovi trattati da stipulare creerà paura e la paura, si sa, contrae i consumi e i commerci. Insomma, il futuro si fa incerto e nebbioso per l’economia del Regno Unito. E il tonfo odierno delle borse di tutto il mondo fa presagire che questa situazione di incertezza condizionerà gli scambi globali per molto tempo.
Le conseguenze per l’Europa. Tanti di noi si stanno chiedendo: e adesso? Ci sarà il tanto temuto effetto-domino ovvero i politici nazionali sapranno fare quadrato intorno alle Istituzioni Europee e proteggerle dagli ululati dei movimenti nazionalisti, antieuropeisti e euroscettici? Staremo a vedere. Prepariamoci, però, alle richieste dei vari Salvini di turno su referendum per uscire dall’Europa, dall’Italia, dalla Toscana, dal condominio, eccetera e eccetera. La risposta alle paure, soprattutto quelle avvertite dalle classi più povere, è bene essere chiari, non può essere che una sola: più Europa. Un’Europa che si occupi, ad esempio, direttamente del problema dell’immigrazione e della sorveglianza delle sue frontiere (non quelle nazionali) con l’impiego di una polizia di frontiera europea, un’agenzia dell’immigrazione europea, campi di accoglienza europei. In generale, l’Europa dovrebbe essere avvertita all’esterno come un soggetto unico e questo è possibile solo attraverso una chiara e univoca politica estera europea, non attraverso tante voci nazionali che diventerebbero inevitabilmente un chiacchericcio buono solo a confondere chi si confronta con noi su scala mondiale. Avanti con gli Stati Uniti d’Europa.
La fine del Regno Unito? Dulcis in fundo, una questione poco dibattuta fino ad ora ma che appare chiara dopo i risultati di ieri (vedi mappa) e le dichiarazioni dei maggiori leader in circolazione. Nei prossimi anni ci sarà un punto all’ordine del giorno del Governo di Downing Street – qualunque esso sarà – di non facile gestione: il pericolo implosione per la Gran Bretagna. La Scozia, passata indenne dal referendum dello scorso anno circa l’uscita dal Regno Unito, ha trovato una motivazione ulteriore per chiedere nuovamente l’indipendenza, essendosi espressa a netta maggioranza per il Remain. L’Irlanda del Nord, anch’essa a maggioranza a favore dell’Unione Europea, chiede la riunificazione alla restante parte dell’isola, per restare difatti in Europa. Che il Regno Unito, per come lo conosciamo, sia destinato a spezzettarsi come negli anni ’90 ha fatto la (ex) Jugoslavia? Non possiamo escluderlo.
Citando l’inno tanto caro al di là della Manica, God save the Queen. Ma non si dimentichi dei suoi sudditi.