L’europeo è finito e noi ospitiamo un racconto sulla passione tutta italiana per il pallone. Articolo di Rocco Garufo.
Lo ammetto, nelle partite importanti della Nazionale di calcio sono il classico italiano da “frittatona di cipolle, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero.”
Del resto, la mia generazione è cresciuta a pane e “pallone”. A pallone, si badi bene, e non a calcio. A pallone si giocava per la strada, nelle chiostre, nelle piazze. Per i più fortunati c’era un campetto sterrato e pieno di erbacce. Le regole erano poche e labili, i pali delle porte con i sassi e le macchine che passavano e ripassavano. Quando ne beccavi una con una pallonata dovevi scappare via di corsa, per la paura di prendere un liscio e busso da un adulto. Tempi duri all’epoca. . . mica oggi.
C’era una precisa gerarchia nella qualità dei palloni. Cominciando dal basso, il “Supertele” era il peggiore in assoluto. Plasticaccia leggerissima, sempre deformato, pessimo nel controllo, pessimo nei tiri. Poco più sopra c’erano i palloni di gomma un po’ più spessa. Niente di che, ma sempre meglio del Supertele. Ancora più su in qualità c’era un signor pallone: il” Tango”. Peso regolamentare, ottimo nello stop e buona traiettoria nel tiro. Una vera bomba. Infine veniva il Re dei re dei palloni. Quello che per noi sfigati di periferia era un miraggio: il pallone di cuoio. Uno solo di noi lo possedeva e ogni volta che si incazzava se lo portava via. Perciò, quando giocavi col pallone di cuoio, oltre alla concentrazione per la partita, dovevi stare attento a quello che dicevi. Una mezza parola fuori posto ed eri fottuto. Pallone di cuoio a casa. E se il tizio portava via il pallone per colpa tua ci pensavano gli altri a darti il benservito.
L’infanzia e la prima adolescenza trascorreva così. Tornavi a casa da scuola, un boccone veloce e via fuori a giocare finchè era buio. Spesso le mamme ci venivano a cercare incazzate nere perché era tardissimo e dovevamo fare una caterva di compiti per il giorno dopo. Si giocava emulando i nostri idoli di allora: Rossi, Tardelli, Conti, Altobelli. . . i ragazzi del mitico 82’. . .
Che mondiale quello dell’82’, scolpito letteralmente nella memoria. La tripletta di Rossi al Brasile; l’urlo di Tardelli che diventò l’urlo dell’Italia intera; il rigore sbagliato da Cabrini nella finale; la freddezza e la finezza del terzo gol alla Germania di Altobelli. Una Nazionale in silenzio stampa, offesa e sbertucciata, con scarso seguito popolare, arrivò di fronte agli “dei del calcio”: il Brasile di Zico, Socrates, Falcao, Eder, Junior, piazzò quattro gol, uno dei quali annullato ancorché regolare, capì di essere la squadra più forte e vinse il mondiale.
Anche allora c’era un calcio “malato”. L’Italia usciva dallo scandalo delle scommesse che aveva investito molte squadre di club e giocatori illustri. Lo stesso Paolo Rossi, capocannoniere del mondiale, veniva fuori da quella brutta vicenda. Anche allora il calcio era una macchina che muoveva affari e miliardi. Non come oggi certo, ma era tutt’altro che passione e poesia. Eppure, questo non ha impedito ad un Paese intero di identificarsi con quei ragazzi, di tifare e commuoversi con loro, di sfilare in milioni per le strade e di gettarsi alle spalle, in quel “baccanale di massa”, uno dei periodi più orrendi della propria storia: gli anni di piombo e il terrorismo.
Perché nel calcio c’è tutto questo. Sentimenti individuali e rituali di massa, coinvolgimento personale e voglia di emozioni condivise. C’è un’identità collettiva, sterile e superficiale quanto si vuole, che ritrova caparbiamente la voglia di riemergere in noi Italiani. C’è qualcosa di profondo e non sempre spiegabile che ci fa tornare bambini anche quando siamo adulti da un pezzo, e siamo consapevoli che fra la nostra passione e il calcio professionistico c’è una zona d’ombra fatta di tifo violento, giri di denaro vertiginosi, sponsor miliardari, affari opachi e corruzione.
Forse è questa dimensione profonda che la Nazionale di Conte è riuscita a risvegliare. Una Nazionale senza grandissimi campioni e senza “prime donne”. Una “squadra operaia”, come si diceva un tempo quando la classe operaia era forte, che fa del collettivo, del sacrificio e della capacità aggregativa le sue armi vincenti. Forse, senza alcuna retorica, è qui che ci siamo appassionati a questa squadra, la dove ci ha mostrato che dalle difficoltà si esce unendo le forze e non soltanto con gli acuti individuali.
Certo ognuno di noi sa che ci sono problemi molto più importanti. Dopo la partita con la Germania ci siamo trovati a provare il dispiacere futile per l’ uscita dell’ Italia dall’Europeo e il dolore profondo per i morti dell’attentato terroristico a Dacca. È questo, purtroppo, appare sempre di più il segno dei nostri tempi. Il segno di un mondo nel quale “l’ambiguità e non l’armonia” è il tratto di fondo. La cosa più importante comunque, è non rassegnarsi mai, anche nel piccolo, ad un mondo siffatto.