A distanza di 100 giorni dalla COP26, l’1% dei Paesi più ricchi del pianeta ha già prodotto più emissioni di CO2 di tutto il continente africano in un intero anno. I risultati raggiunti a Glasgow erano – e restano – interessanti, ma il trend sembra non cambiare. In più, l’assenza di Cina, Russia e India rischia di bloccare tutto. Quanto e come è come cambierà lo scenario nei prossimi anni?
Circa 4 mesi fa, a Glasgow, si concludeva la tanto attesa COP26, alla quale ho avuto il piacere di partecipare come osservatore. In seguito alla COP26, si sarebbe potuto – e dovuto – aprire un dibattito su quelli che erano i risultati raggiunti e le sfide per il futuro.
È notizia recente, infatti, che, a distanza di 100 giorni dalla COP26, l’1% dei Paesi più ricchi del pianeta ha già prodotto più emissioni di CO2 di tutto il continente africano in un intero anno.
Durante il biennio 2020-21, nonostante il Covid, il cambiamento climatico non si è certo arrestato. Ne sono testimoni le catastrofi naturali che hanno continuato a susseguirsi senza soluzione di continuità. Le temperature estreme, spesso fuori stagione, hanno portato allo stesso tempo ad alluvioni e a eventi siccitosi, con disagi sia alla vita nelle città, sia in merito alle forniture di beni primari, come quelli legati alle coltivazioni primarie di riso, mais e frumento.
Dalla COP15 di Parigi alla COP26 di Glasgow
La COP26 era un momento molto atteso. Le “parti” (COP significa Conference of Parties) avrebbero dovuto aggiornare, dopo 5 anni dalla COP21 di Parigi, i propri piani nazionali.
Infatti, nel quadro dell’Accordo di Parigi, ciascun Paese si era impegnato a creare un piano nazionale indicante la misura della riduzione delle proprie emissioni, detto Nationally Determined Contribution (NDC).
L’aggiornamento avrebbe dovuto contenere ambizioni sempre maggiori. Ecco perché, a 5 anni di distanza, la COP26 era un appuntamento tanto atteso.
Oltre a ciò, quattro erano gli obiettivi principali della COP26:
- 1. Azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050 e puntare a limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C. Per far questo, ai Paesi venivano chiesto di: accelerare il processo di fuoriuscita dal carbone; ridurre la deforestazione; accelerare la transizione verso i veicoli elettrici; incoraggiare gli investimenti nelle rinnovabili.
- 2. Adattarsi per la salvaguardia delle comunità e degli habitat naturali, incoraggiando i Paesi colpiti dai cambiamenti climatici a fronteggiare i cambiamenti e metterli in condizioni di proteggere e ripristinare gli ecosistemi e di costruire difese, sistemi di allerta, infrastrutture e agricolture più resilienti per contrastare la perdita di abitazioni, mezzi di sussistenza e persino di vite umane.
- 3. Mobilitare i finanziamenti per mantenere le azioni di mitigazione e adattamento. I Paesi sviluppati dovevano mobilitare almeno 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2030. In questo, un ruolo importante spettava alle istituzioni finanziarie internazionali (WB, WF, BCE, FED, etc).
- 4. Incentivare la collaborazione, così da finalizzare le regole dettagliate necessarie per rendere pienamente operativo l’Accordo di Parigi e accelerare le attività volte ad affrontare la crisi climatica, rafforzando la collaborazione tra i governi, le imprese e la società civile.
Le ombre sulla COP26
I Paesi, dopo 13 giorni ininterrotti di trattative volte a limare parola per parola gli accordi, si sono impegnati a raggiungere tutti i punti degli accordi. Ci sono però alcune ombre che rischiano di vanificare gli effetti di quanto messo nero su bianco.
In primis, l’assenza degli attori di peso nella transizione climatica: Cina, India e Russia. I delegati erano presenti, ma l’assenza dei leader politici dall’avvenimento più atteso dell’anno fa legittimamente dubitare se e come questi paesi si impegnino davvero nelle azioni dettagliate sopra.
Inoltre, i Paesi che già sono colpiti dai cambiamenti climatici – guarda caso proprio i Paesi più poveri, tra cui anche il gigante indiano – dichiarano che le risorse messe a disposizione dai Paesi più ricchi sono insufficienti.
Il Fondo da 100 miliardi di dollari l’anno andrebbe triplicato. Infine, questi Paesi spesso sono proprio quelli che avrebbero “diritto” ad inquinare, in quanto non ancora sviluppati. È chiaro, quindi, che le risorse che reclamano siano ancora di più necessarie per frenare un’eventuale escalation nelle emissioni.
Queste due macro-questioni, da sole, rischiano di vanificare gli accordi tanto faticosamente raggiunti.
Cosa cambierà nel futuro prossimo
Senz’altro, la COP26 funzionerà da acceleratore per alcune cambiamenti già in essere che possiamo sintetizzare di seguito.
L’opinione pubblica ha già mutato le proprie aspettative e questo comporterà una pressione sempre maggiore sui rappresentanti politici che saranno, volente o nolente, costretti a inseguire tali volontà. Ci si deve aspettare, quindi, un rafforzamento delle policy a livello ambientale, rendendo alcuni accorgimenti di tutela sempre più stringenti e vincolanti.
Inoltre, il comportamento dei consumatori, probabilmente, subirà un’ulteriore spinta verso scelte sempre più sostenibili: parole come sostenibilità, Km-Zero, etica, sono già presenti nel loro vocabolario. Presto entreranno anche impronta ecologica, circolarità, neutralità climatica, etc.
Sulla base di quanto visto finora, infine, le imprese non potranno non subire tali scelte, a meno di non farsi trovare preparate. Innovazione verde e nuovi modelli di business saranno temi all’ordine del giorno dei consigli di amministrazione, compreso l’accesso al mercato di credito, che verrà presto precluso a chi non dimostrerà un impegno marcato verso obiettivi di neutralità climatica.
Purtroppo, in queste settimane, l’opinione pubblica mondiale è stata catturata, e a giusto titolo, dall’aggressione russa in Ucraina. Speriamo, però, di poter iniziare molto presto a discutere delle sfide che ci aspettano sul versante dei cambiamenti climatici.
Le lancette dell’orologio che segna il 2030 continuano a scorrere e il tempo che abbiamo a nostra disposizione per limitare i danni è sempre più esiguo