In queste settimane sta tornando centrale il tema dell’aborto, a seguito del possibile rovesciamento della sentenza statunitense Roe contro Wade. I conflitti sociali tengono banco negli Usa, ma anche in Europa non sembra andare meglio e in Italia l’associazione Luca Coscioni denuncia alla Camera l’impossibilità di interruzione di gravidanza per medici obiettori in ben 31 strutture ospedaliere.
Nelle ultime settimane abbiamo sentito a lungo parlare del rovesciamento della sentenza Roe contro Wade, che in America metterebbe in discussione la legalizzazione dell’aborto in tutto il paese.
Il diritto delle donne di abortire nel corso del primo trimestre di gravidanza negli Stati Uniti è garantito dal 1973 a seguito della storica decisione della Corte Suprema per sette voti a due nel caso Roe contro Wade.
La querelante, indicata genericamente come Jane Roe e soltanto in seguito identificata come Norma McCorvey, era una donna incinta e nubile a cui era stato impedito di interrompere la gravidanza ai sensi della legge del Texas, secondo la quale la pratica era illegale a meno che l’interruzione di gravidanza non servisse a salvare la vita della madre. La controparte era Henry Wade, procuratore distrettuale della contea di Dallas.
La sentenza del 1973, in sostanza, prevede tre differenti fasi della gravidanza: nel primo trimestre la decisione se abortire appartiene sempre alla donna, insieme al suo medico, e lo Stato non può porre nessuna limitazione; nel secondo trimestre lo Stato può intervenire e regolare l’interruzione di gravidanza, ma solo per tutelare la salute della donna; infine, considerando la capacità del feto di sopravvivere al di fuori dall’utero, nel terzo trimestre l’interesse dello Stato è quello di proteggere il feto stesso, anche limitando o vietando l’aborto.
Ma non è la prima volta che il diritto all’interruzione di gravidanza è stato messo in discussione.
Nel 2021, in Texas, la maggioranza repubblicana del secondo stato più popoloso d’America ha fatto fare un balzo indietro di 48 anni alla normativa sull’interruzione volontaria di gravidanza, con la promulgazione della legge che vieta l’aborto oltre le sei settimane. Già dallo scorso anno, quindi, la legge del Texas è divenuta più restrittiva della legge federale degli Stati Uniti.
Anche in quel caso fece discutere la posizione della corte suprema statunitense che, con cinque voti favorevoli e quattro contrari, decise di non bloccare la legge texana.
C’è da dire che gli Stati Uniti non sono l’unico paese in cui è in atto questo conflitto.
Tra i più vicini a noi, la Polonia ha fortemente limitato il diritto all’aborto e la società civile polacca continua a protestare contro una decisione che, anche in questo caso, divide il paese. Le grandi manifestazioni, svolte nel paese nell’autunno del 2020, sono riuscite soltanto a ritardare l’entrata in vigore, a gennaio 2021, della norma che vieta l’aborto anche in caso di malformazione del feto.
Ancora più vicina la Repubblica di San Marino, dove è stato depenalizzato l’aborto soltanto nel settembre 2021, con un referendum a coronamento di una battaglia durata più di un decennio.
E a casa nostra?
In Italia, nonostante l’interruzione di gravidanza (IVG) sia legale dal 1978 con la legge 194, numerose sono le difficoltà delle donne italiane ad accedere a questo servizio, nel quale attualmente il tasso di obiettori di coscienza tra medici e ginecologi si somma alle enormi complicazioni dovute al Covid.
Durante le ondate di contagi, diverse associazioni avevano denunciato che l’accesso al servizio di interruzione volontaria di gravidanza era diventato molto più difficile, tra reparti chiusi, limitati o trasferiti e scarsità di informazioni. Situazione ancora più paradossale da quando la telemedicina e l’assistenza da remoto sono entrate a far parte del Servizio Sanitario Nazionale, senza includere, però, l’interruzione volontaria di gravidanza tra le prestazioni previste.
Riguardo a questo tema, lo scorso martedì (17 maggio 2022) l’associazione Luca Coscioni ha presentato alla Camera dei Deputati un’indagine che mostra che, su oltre 180 ospedali e consultori italiani che dovrebbero garantire l’interruzione volontaria di gravidanza, ci sono ben 31 strutture con la totalità di obiettori di coscienza tra ginecologi, anestetisti, infermieri e assistenti sanitari ausiliari. (Per approfondire il tema potete leggere questo articolo del Post).
Non garantire tale servizio è una continua violenza istituzionale.
Questa inchiesta evidenzia che, più di quarant’anni dopo la legge 194, questa è rimasta incompiuta e che per fruire di una prestazione sanitaria essenziale molte donne, respinte da alcune strutture, sono costrette a cambiare Regione per far valere un proprio diritto.
È la realtà di un paese che rimane troppo spesso indietro, enormemente, sulla giustizia e sul sociale, di un paese nel quale si continua a consentire ai “movimenti pro-vita” di seppellire il feto abortito all’insaputa della madre, effettuando una ulteriore violenza psicologica intollerabile, di un paese che non riesce a garantire prestazioni sanitarie uguali per ogni cittadino, che esso viva al Nord o al Sud.
Si tratta di un quadro nel quale si sceglie di rimandare costantemente il potenziamento dei consultori, presidi gratuiti a tutela della salute, che rappresentano invece una delle più grandi necessità per garantire assistenza completa, soprattutto alle categorie più fragili.
Allora se è più che giusto guardare con preoccupazione a quello che succede nel mondo, con la stessa angoscia, dobbiamo guardarci allo specchio.
Alla base, ovunque, vi è la stessa incapacità di comprendere che ogni scelta è difficoltosa, che merita rispetto e soprattutto umanità. Che ogni donna ha il diritto di poter scegliere, che certe scelte non sono fatte a cuor leggero e che non possiamo permetterci, mai, che una legge presente nel nostro paese sia valida soltanto per alcune strutture e per altre no.
L’aborto dovrebbe essere un servizio medico, non una caccia al tesoro.
Fonte foto: Ferdinando Piezzi / Alamy Stock Photo