Il centro del Pentagono
La città di Livorno sta discutendo e preparando il nuovo Piano Operativo. E’ l’occasione per immaginare il futuro della città e avere diverse visioni di quel che sarà. L’avvocato Ruggero Morelli ha raccolto alcuni pensieri di concittadini appassionati e ce li ha inviati. Li racconteremo in questa rubrica, episodio dopo episodio. Ecco il quinto.
I livornesi non dicono “andiamo a fare shopping”, dicono “si va in centro”. Andare in centro vuole dire andare a vedere le vetrine e, se conviene, a fare compere, ma soprattutto si va in centro per andare lentamente su e giù per i portici di via Grande e chiacchierare del più e del meno: da piazza della Repubblica fino al porto, passando per piazza Grande. A dire il vero si passeggia più nella parte di via Grande che va da piazza Grande fino al porto, meglio conosciuta come seconda via Grande.
Ma di “centri” a Livorno ve ne sono due: l’altro è quello che comprende il quadrilatero delimitato da piazza Cavour, via Ricasoli, l’Attias (piazza Attias), un pezzetto di via Marradi e di via Roma unite da via Cambini, e poi corso Amedeo da via Magenta all’Attias, via Magenta e il tratto di via E. Rossi fino a piazza Cavour.
E sono due “centri” ben distinti uniti da via Cairoli che è una strada dove hanno sede quasi esclusivamente banche, la posta centrale e uffici, qualche bar, poche le abitazioni. Ai livornesi questa via non piace, è considerata solo una strada di passaggio che unisce appunto i due “centri”; vi si passa velocemente.
Ecco, forse se fosse riqualificata con alberi e panchine e altri arredi sarebbe meno “grigia” e più vivibile, a tutto vantaggio anche delle strade che la incrociano.
Mentre il “centro di via Ricasoli” è stato scoperto dai giovani studenti negli anni Sessanta come punto di aggregazione all’aperto, il “centro di via Grande” è da sempre considerato il centro cittadino per eccellenza e ritenuto il centro storico della città. Di recente è stato presentato un progetto di riqualificazione della strada e di alcune aree limitrofe.
Nei fatti però via Grande non può più essere considerato il vero centro storico perché dei palazzi di via Grande e delle vie limitrofe della Livorno ante guerra non è rimasto più nulla, tutto distrutto dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, che furono ben 116 dal giugno 1940 al luglio del 1944. Le bombe, oltre via Grande e il centro cittadino colpirono la zona industriale e quella portuale. Furono circa 20 mila i vani di abitazioni distrutti, oltre 30 mila quelli sinistrati. I bombardamenti causarono la morte di 1.400, quasi tutti civili, migliaia di feriti, molti furono i dispersi.
Nell’immediato dopoguerra, lentamente e a seguito anche di compromessi urbanistici obbligati dalla drammatica situazione edilizia in cui si trovava la città, il centro storico fu ricostruito: palazzi di nuova architettura, in via Grande con le “logge”, e poi il “nobile interrompimento” in piazza Grande (mai amato da gran parte dei livornesi) e il risanamento della Venezia Nuova, completato negli anni Novanta.
Comunque è un fatto che Livorno ha due “centri” e nessuno dei due coincide, come succede invece in tutte le altre città toscane con la parte storica della città, che a Livorno esiste ed è quella realizzata nella metà del Seicento: la Venezia Nuova.
Perché quindi non allargare la visuale spostando l’attuale “centro” facendolo coincidere con l’antico baricentro del Pentagono del Buontalenti in modo tale da far diventare la Venezia Nuova il vero centro storico cittadino? A dire il vero negli anni Ottanta l’allora Giunta guidata dal Sindaco Alì Nannipieri prese alcune decisioni che tendevano proprio a fare del quartiere della Venezia il centro storico per eccellenza attraverso. Per dirne solo due, il recupero edilizio di alcuni antichi edifici, mentre nel piano del commercio di allora si indicava nella via Borra la strada degli antiquari. Erano previsti anche interventi sul sistema dei fossi e delle cantine ma si manifestò una assurda opposizione da parte dei proprietari delle cantine e delle barche ormeggiate.
Ma cosa potrebbe produrre la valorizzazione di questo nuovo centro storico? Di sicuro produrrebbe una reazione a catena con il coinvolgimento e la trasformazione dei quartieri e delle zone immediatamente confinanti con la Venezia come la zona di interfaccia portuale, “il Pontino”, piazza Garibaldi, piazza della Repubblica, il quartiere di Sant’Andrea (via Terrazzini, via della Pina d’oro, ecc.), e poi piazza Venti Settembre, i Borghi.
Oggi il Centro (o i centri) cittadino coincidono territorialmente con la vecchia area della Circoscrizione 2 che va oltre i confini dell’antico Pentagono del Buontalenti.
I dati statistici degli ultimi anni ci dicono che in quest’area i residenti sono circa 30.000 e la popolazione è relativamente anziana; nell’area che coincide con il Pentagono del Buontalenti, i residenti sono poco più di 10.000. Una percentuale molto alta dei residenti è composta da immigrati in gran parte in una fascia di età compresa tra i 23 e i 44 anni. All’interno di questo territorio vi sono le aree mercatali più importanti della città, numerosi negozi e pubblici esercizi (bar, ristoranti, pizzerie, ecc.) e abitazioni.
Spostare il baricentro cittadino non è puro espediente geometrico ma significa spostare la visuale, anzi aprirla su una visione innovativa di città. L’idea del centro identificato con via Grande è statica; spostarlo nella Venezia, dove già vi sono ampie aree pedonali, il museo della città, le due Fortezze, aprirebbe molte prospettive di carattere turistico, commerciale, culturale, e costringerebbe anche a pensare alle problematiche sociali che spesso si tende a rimandare nel tempo, come quella dell’immigrazione e dell’integrazione.
Due per tutte: “il sistema delle cantine” e le “città minori: i ghetti multietnici”.
Il sistema delle cantine
Del recupero architettonico del sistema dei fossi e delle cantine se ne parla da anni, almeno dalla fine degli anni Ottanta. Le cantine sono state realizzate nel Sei-Settecento. In un censimento di molti anni fa (ma i dati sono comunque tuttora validi) furono contate 142 cantine, per lo più dislocate sugli scali delle Cantine (39), sugli scali Novi Lena (21), sugli scali Bettarini (18) e scali Finocchietti (10); le altre sono sparse in altri scali della Venezia. Solo 19 risultavano di proprietà pubblica: 16 del Comune, una della Provincia e due del demanio. Molte erano o sono inagibili. Le superfici oscillano tra i 30 mq fino ai 100-150 mq e, in alcuni casi, sono anche molto più grandi.
Oggi il sistema delle cantine, compresi scali, scalandroni, attracchi, è visibile a tutti, così come è visibile a tutti la situazione prevalente di degrado strutturale di questo sistema. Si tratta di una parte della città a pelo d’acqua: sotterranea perché le cantine arrivano fin sotto i palazzi Sei-Sette-Ottocenteschi dai quali a volte vi si accedeva e vi si accede tuttora; un sistema storico-commerciale perché in antichità vi si depositavano le mercanzie d’ogni genere (i nomi, in parte scomparsi o sostituiti, degli scali ne sono testimonianza).
Ma “questa città a pelo d’acqua”, come si è detto, è anche in gran parte degradata anche se ormai, come si dice, l’occhio ci ha fatto l’abitudine a non vedere i guasti del tempo e soprattutto dell’incuria (inciviltà) dell’uomo.
Lo spostamento del centro nella Venezia susciterebbe la necessità (l’urgenza) di sviluppare un serio e concreto progetto di riqualificazione e valorizzazione storica e architettonica di questo “sistema”, coinvolgendo (anche finanziariamente) Regione Toscana, Autorità portuale e Comunità Europea, e ovviamente i proprietari delle cantine e delle imbarcazioni ancorate nei fossi.
Un progetto che porterebbe alla nascita di attività di vario tipo nelle cantine rinnovate, all’eliminazione di tutte le brutture che ora sono visibili e alla vivibilità di questa città a pelo d’acqua.
Le città minori: i ghetti multietnici
Oggi, come abbiamo visto, gran parte dei residenti immigrati con il permesso di soggiorno (ma anche senza) sono concentrati in particolare nei quartieri più degradati della città e in particolare nell’area compresa tra piazza dei Mille-via Terrazzini-piazza Garibaldi e piazza Venti Settembre-via Mentana-via Oberdan.
Si ricorda spesso che Livorno è la città delle Leggi Livornine che costituivano una serie di provvedimenti legislativi emanati dal granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici in due fasi, nel 1591 e nel 1593, al fine di richiamare a Livorno una popolazione attiva in grado di favorire lo sviluppo economico della città e dell’economia marittima del Granducato di Toscana. Malgrado le Livornine fossero originariamente rivolte anche alla città di Pisa, fu soprattutto Livorno a trarne i maggiori benefici, che si estesero anche al di là del mero ambito economico. Le Leggi Livornine prevedevano l’immunità, privilegi ed esenzioni, nonché libertà di culto e di professione religiosa e politica per chi migrava a Livorno facendola divenire nel tempo una città cosmopolita, tollerante e multietnica. Ma quella fu, in gran parte, una “immigrazione ricca” e ben accolta, a differenza di quella di oggi.
E oggi, appunto, si è sempre detto che Livorno non ha mai avuto nella sua storia un ghetto né religioso né multietnico ma, dagli anni Ottanta a oggi zone della città (quelle che abbiamo menzionato) sono diventate vere e proprie “Città minori”. Gli immigrati che vi vivono, abitano in case a loro affittate da livornesi; case a volte in condizioni pessime con affitti esosi. Queste aree cittadine sono considerate di crescente degrado e poco sicure. Zone che assumono sempre più la fisionomia del ghetto, e il ghetto è separazione culturale e religiosa, prima che un mero perimetro di vie e di case.
Ecco quindi che l’idea della riqualificazione del centro storico della Venezia può favorire una vera e propria riconversione architettonica e del sistema di vita anche in queste zone limitrofe. Com’è stato realizzato in altre realtà locali, italiane ed europee, sarebbe tuttavia fondamentale promuovere tutta una serie d’interventi finalizzati a un reale inserimento di cittadini provenienti da altre parti del mondo all’interno di una collettività, attraverso il processo di socializzazione, e al miglioramento delle condizioni ambientali e di vivibilità, favorendo in queste zone le ristrutturazioni edilizie, l’inserimento di attività commerciali più qualificate, la nascita di strutture culturali-educative e dell’associazionismo in modo tale che queste zone diventino attrattive anche per i cittadini livornesi infrangendo così l’idea di ghetto.