La politica a volte sembra sorda e anche tarda. Non ascolta, capisce poco e i tempi di reazione sono troppo lunghi. Ma siamo sicuri che noi cittadini facciamo bene la nostra parte? Siamo vittime innocenti oppure siamo semplicemente indifferenti e a tratti menefreghisti?
Questo articolo è un mea culpa per redimere il mio passato disinteresse verso la mia città ma anche, se possibile, per dare il via ad una riflessione.
30 anni, livornese, mamma, lavoratrice: questo il mio profilo. Lo confesso, per almeno 25 anni della mia vita non sono stata orgogliosa della mia città. Senza stimoli, senza possibilità lavorative almeno nel mio settore ( se fai parte dei creativi a Livorno sei uno dei tanti), brutta, decadente e senza storia. Nel frattempo ho vissuto, proteggendo il mio orticello e sono andata avanti, lamentandomi quanto basta e seguendo la corrente dei luoghi comuni cittadini con mesta rassegnazione.
Ma cosa ho fatto io per la mia città? Assolutamente nulla. Il mio contributo politico e sociale è stato pari a 0. Poi sono cresciuta, e mi sono accorta che la mia città non è tutta da buttare e soprattutto ha un fascino, una storia ed un passato di cui andare fieri. Non solo per le fasi e le gesta storiche se così vogliamo definirle, ma per i valori che l’hanno animata. Sono cresciuta dicevo, e ho deciso di rimanere, non solo per il mare e il clima mite, per la famiglia e le relazioni di trent’anni ma perché se ci sarà un cambiamento, io voglio farne parte. Non so ancora se con un impegno politico che vada al di là dell’essere un’elettrice informata ma sicuramente con un impegno e un’attenzione maggiore.
E qui arriva la riflessione: quanta responsabilità hanno i livornesi? Esiste un disinteresse diffuso che ha generato negli anni questa condizione decadente? Quanto la tarda politica e la gestione opportunistica ha inciso in questo pessimo risultato?
Diciamocelo: essere livornese non è una cosa semplice. Hai quell’animo ribelle che guida la tua vita, sei un po’ sbruffone di natura, ti piace andare al mare, ami criticare anche solo per seguire una moda e sicuramente qualcosa ti spetta di diritto. Tutti ci crogioliamo un po’ in questo stereotipo ma rimaniamo male quando il sorriso di un nostro interlocutore che conosce la nostra origine toscana, svanisce quando diciamo Livorno.
Ma perché siamo arrivati a questo? Probabilmente perché, come me, molti ragazzi, giovani e adulti decidono di lasciar perdere a prescindere, pensando che sia tutto inutile o che non ne valga la pena. Si preferisce il silenzio perché a parlare ci pensano gli altri: i “Livornesi di scoglio” che urlano e parlano di calcio, di moletto e di orate. E invece ci sono tanti che come me non amano urlare, si intendono poco di pallone, vanno al mare solo quando non devono lavorare (e non viceversa) e magari hanno in mente qualcosa di diverso per far crescere la città. Quindi parliamone, insieme, tutti. Iniziamo a dialogare, unendo interessi, bisogni, visioni, perché no mangiandoci un’orata tutti insieme o anche un cinque e cinque su un muretto. Se la città è di tutti, tutti possono esprimersi ma tutti sono obbligati a lavorare per il cambiamento. Altrimenti resta tutto come prima, si prosegue a cavalcare con ignoranza i luoghi comuni, le correnti di pensiero da bar che magari non sono neanche vere.
E le istituzioni? La politica? L’amministrazione locale?
Credo che gran parte della rassegnazione epidemica che ha colpito una buona parte dei cittadini volenterosi in questi anni sia dovuta ad una cattiva gestione politico-amministrativa della città. E il motivo principale a mio avviso, non sta nell’aver o meno agito correttamente ( non entro in merito a questioni delle quali non ho la dovuta conoscenza) ma nel non aver mai comunicato con i cittadini contribuendo a diffondere questo torpore menefreghista che ci ha condotti fino a qui. Manca un filo diretto amministrazione comunali – cittadini nel bene e nel male. Manca uno stimolo al dialogo, manca una spinta alla partecipazione e questa, secondo me deve partire dalle istituzioni soprattutto quando i cittadini sonnecchiano da troppo tempo.
Che poi questa condizione di sonno menefreghista faccia comodo per una gestione nepotistica dei ruoli dirigenziali, per un interesse al mantenimento dello status quo e dell’oligarchia di pochi, non so e non posso affermarlo con certezza.
La cosa che serve, con estrema urgenza, è un cambiamento. Meglio se radicale e innovativo.
Certo, ci vorrà impegno, sacrificheremo qualche pausa pranzo al moletto ma potrebbe davvero valerne la pena.