23 giugno 2014. Dopo un’incursione dentro un libro di Pons sulla fine del comunismo questo decalogo di libri di politica si è fermato. Ora riprende, e ne mancano solo quattro.
Quelli promessi dall’inizio:
7. Apparire sapienti su quali sono alcune cose che andrebbero fatte subito e perchè non si riesce a farle
8. Apparire sapienti su cosa va benone della regione e della città oggi, e cosa distingue l’una e l’altra
9. Apparire sapienti sulle domande più hard di filosofia della gestione di una città
10. Apparire sapienti su cosa pensa il nemico
Premetto – e poi non me ne occuperò più – che per quanto poco possa valere io intendo fare come ho fatto finora, ovvero parlare di un libro. Non ci metterò niente di quello che è successo a Livorno nell’ultimo mese, così come quello che ho sempre voluto metterci dal primo libro è la proposta di pensare alla politica. Fate delle due affermazioni l’uso che crederete migliore (anche l’uso incrociato che credete migliore). E ora Colin Crouch, un signore inglese che per un po’ lavorava a Fiesole e che ha scritto un libro che si chiama Postdemocrazia, edito da Laterza e uscito nel 2003. Il libro risponde al punto (7), cioè alla questione di provare a spiegare perché ci sono delle cose che andrebbero fatte subito ma che non si riesce a fare.
Crouch dipinge il quadro – foschissimo – di una politica che non è più in grado di mantenere un modello di servizio pubblico alternativo al modello del profitto di un’azienda. Il primo elemento che secondo lui ne deriva è non riusciamo più a sentire l’importanza della partecipazione politica e nello stesso tempo non sappiamo più come partecipare: non ci sono più divisioni nette fra classi sociali (per prima è scomparsa la classe operaia) e gli interessi politici sono indeboliti fortemente dalla nostra progressiva omogeineizzazzione come consumatori. Ora se queste prime due cose sono abbastanza comprensibili, la forza del saggio è la chiarezza dell’analisi. Ecco cosa scrive Crouch sul modo in cui il mercato si è progressivamente interessato alla politica: “nella fase successiva alla seconda guerra mondiale le migliori opportunità di profitto e allargamento della sfera del mercato risiedevano nella produzione industriale. Fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, l’innovazione nella produzione di beni non ha smesso di andare avanti a buon ritmo, ma hanno cominciato ad aprirsi molte nuove opportunità di erogare a una popolazione sempre più benestante servizi più che beni: nuove forme di distribuzione, viaggi in aumento, nuovi servizi finanziari ed economici in genere, il ricorso crescente ai ristoranti, un maggior interesse ad usufruire di servizi sanitari, educativi, legali e professionali (p. 94)”. Colin Crouch ci sta ricordando – diciamo così – che spesso noi non sappiamo che tipo di ente sia quello che eroga un servizio qualsiasi, per esempio il servizio eletronico pubblico per la connessione wifi, ma che è stata quest’opportunità a far creare i servizi pubblici di wifi, perché per primo il mercato ha letto l’opportunità di proporre ai governi e alle amministrazioni questo nuovo servizio. Secondo elemento che Crouch lega a questo avvicinamento dell’azienda allo stato, oltre alla nostra progressiva esclusione dagli strumenti di dibattito e conflitto politico, è la progressiva perdita di competenza della politica. E’ l’appalto il punto cruciale. Ovvero, il mercato si fa avanti, la politica presta orecchio, spesso per l’opportunità che le privatizzazioni offrono ai buchi di un bilancio complesso come quello della spesa per i servizi pubblici, e si viene a creare l’idea – appalto dopo appalto – che le conoscenze tecniche e professionali dell’azienza a cui si affida l’erogazione del servizio siano superiori a quelle del governo che lo ha deciso. Ma questo secondo Crouch è un puro e semplice effetto della situazione e il punto per lui è che bisogna arrestare questa dinamica. Non c’è niente, sostiene, che sia in grado di dimostrare che le conoscenze dei privati siano migliori di quelle che un tempo risiedevano nelle forze politiche preposte a pensare il bene pubblico. Quello che invece c’è di favorevole per le aziende, in questo sistema, è che: “se la saggezza delle aziende è sempre superiore a quella del governo, l’idea di un giusto limite dell’influenza dell’economia sul governo comincia a essere considerata assurda (p. 112)”. Crouch passa continuamente da questo livello generale dell’analisi a esempi che riguardano precise questioni. Si occupa del ruolo delle donne nei movimenti politici, del problema dell’educazione e del sostentamento dei figli, sempre più complesso e costoso, della quantità di tempo che i cittadini-consumatori passano a lavoro, del cambiamento della forma dei partiti. Poi torna a un esempio molto forte di questa sua idea di come agisce l’erogatore privato di un servizio, rispetto a come non avrebbe potuto agire l’erogatore pubblico che glielo ha appaltato: “i supermercati sono situati sulle principali arterie della periferia cittadina, zona di facile accesso per un gran numero di cittadini danarosi. Per una minoranza residua è molto difficile andarci, ma si tratta di poveri che spendono poco e quindi dei quali non vale la pena preoccuparsi. E questo è solo un esempio tipico di una cosa che può succedere in modo ancora diverso. Immaginate che l’ente che si occupa degli edifici scolastici di una cittadina annunci che, nell’ambito di una politica di indagini di mercato e procedure di razionalizzazione, si è affidato ai consulenti delle catene di supermercati per stabilire un giusto rapporto costi-benefici nelle collocazioni degli edifici. E’ risultato che la maggior parte delle scuole verranno chiuse e riaprirà un piccolo numero di grandi istituti sugli svincoli delle autostrade. Le ricerche hanno dimostrato che il gruppo di allievi i cui genitori non hanno la macchina hanno probabilmente un rendimento scolastico scarso, quindi, oltre al notevole risparmio conseguente alla chiusura di molte scuole, i punteggi scolastici miglioreranno quando i bambini svantaggiati smetteranno di frequentare la scuola (p. 50)”.
Se pensiamo alla questione locale livornese degli ipermercati si/ipermercati no, intendendola come qualcosa che si è messo in moto da più di dieci anni, questo libro aiuta a vedere le cose con una profondità necessaria, per quanto catastrofica: Crouch sta dicendo cioè che oltre la protezione dei piccoli commercianti, oltre la questione delle lobby di allenze e contrasti fra cartelli di aziende di supermercati, c’è un intero sistema sociale che su questioni di questo genere subisce frane strutturali. L’analisi di questo saggio chiama in causa qualcosa che può rispondere alla domanda di questo decalogo: quello che andrebbe fatto subito sarebbe lottare per l’informazione come cittadini, rivendicare una trasparenza e occuparci di vigilarla in un sistema strutturato di forze; la ragione per cui non si riesce a farlo è un sistema politico in cui i legami fra partiti e profitto nelle scelte della gestione delle priorità e dei servizi sono spesso fortuiti o intorbiditi da catene di deleghe di denaro e libertà di azione. In un’epoca ancora molto vicina sarebbero stati i portuali, per esempio, come classe sociale operaia cittadina, a far sentire una voce che esprimesse particolari rivendicazioni e tenesse il porto sotto l’attenzione costante della cittadinanza, ma questo era semplice solo finché chi voleva sbarcare una nave doveva affidarsi alle maestranze portuali. Una legge del 1994 ha sopresso questi enti delle compagnie portuali in cui i lavoratori si costutuivano, e ha introdotto i servizi di carico e scarico portuale sul mercato della pubblica concorrenza. A questo va aggiunto anche che i nuovi enti che hanno sostituito la compagnia portuale cittadina possono ricevere in concessione la banchina su cui effettueranno le loro operazioni e allora lo faranno con i propri mezzi, i propri dipendenti e i propri accordi con la nave che li ha ingaggiati. Se consideriamo che le banchine sono suolo del demanio pubblico questa situazione permette che si verifichino su questo suolo pubblico operazioni private su cui la capitaneria di Porto non ha più nessun obbligo di vigilanza e controllo.
Ci saranno alcuni che si occupano del problema in modo serio e che si sono confrontati con tante delle questioni che questo libro mette avanti, ma ci saranno anche altri che non ci hanno mai pensato. Io non so dove sono fra questi due estremi, però non smetto di credere nell’importanza di poter dire in modo semplice le cose difficili. Questa possibilità mi sembra diametralmente opposta a quella di far sembrare semplici le cose difficili. Il libro di Crouch si conclude con una proposta su partiti politici e movimenti, intendendo l’emergere sempre più evidente di forze che si sostituiscono all’idea tradizionale di partito. Sono gruppi di cui l’autore parla con interesse fin dall’inizio del libro, dato che, dice, restituiscono una ricchezza di obiettivi permettendo di orientarsi su cause specifiche, “mentre la scelta di un partito ci obbliga a sottoscrivere l’intero pacchetto (p. 20)”. Però non è finita, perché sostiene anche che la presenza di queste forze dà il polso di una società liberale, e che in questo non c’è nessuna coincidenza fra una società liberale forte e una democrazia forte. Fa questo esempio: “coloro che sostengono di poter lavorare meglio per un’alimentazione sana, creando un’associazione che faccia pressione sul governo e ignori la politica elettorale, dovrebbero ricordare che le industrie chimiche e alimentari muoveranno corazzate contro le loro barchette a remi. Un liberalismo fiorente consente certo a ogni causa, buona o cattiva, di cercare uno spazio politico e rende possibile una ricca gamma di forme di partecipazione pubblica alla politica. Ma a meno che non sia compensato da una sana democrazia in senso stretto, si muoverà sempre in modo distorto (p. 24)”. Nelle conclusioni l’argomento dei movimenti torna, e viene fatta una proposta paradossale che io riporto per intero, insieme al consiglio di leggere il libro: “Da una parte sembrerebbe che nella società postdemocratica non possiamo più dare per scontato l’impegno di certi partiti su certe cause. Questo porterebbe alla conclusione che dovremmo voltare le spalle alla lotta di partito e dedicare le nostre energie a quelle associazioni che sappiamo difenderanno le questioni che ci interessano. Dall’altra parte abbiamo visto anche che la frammentazione dell’azione politica in una congerie di interessi e lobby garantisce vantaggi sistematici ai ricchi e ai potenti assai più di una politica dominata dai partiti, in cui i partiti stanno dalla parte di sostenitori dall’identità sociale relativamente definita. Da questo punto di vista, trascurare il partito per i gruppi di pressione significa solo accellerare la postdemocrazia. (..) I partiti che non subiscono alcuna pressione resteranno radicati nel mondo postdemocratico delle lobby d’impresa; i gruppi di interesse che tentano di agire senza fare riferimento alla costruzione di forti partiti della sinistra verranno sovrastati dalle lobby d’impresa. Abbiamo bisogno di tenere in relazione reciproca queste due forme di azione apparentemente contrastanti, movimenti e partiti (p. 125)”.