Quando penso al mare, generalmente evoco in me immagini positive: l’estate, il divertimento, il tempo libero. Le cotte estive da adolescenti, l’aria fresca e pulita. Per qualcun’altro, ad esempio chi con il mare ci lavora, i pescatori, il mare è vita: permette di potersi guadagnare da vivere, nobilita chi lo solca. Lo stesso vale per gli operatori turistici: con l’avvicinarsi della stagione estiva, i proprietari dei lidi e gli albergatori rimettono in moto le loro attività. Stress, vero, ma anche qui non credo nessuno si lamenti del brulicare di turisti sulle spiagge. Nessuno di noi, però, associa all’immagine del mare un’accezione negativa, quella che tanti migranti o loro parenti temono di dover vivere nel tragitto che separa l’ultimo pezzo di Africa, di miseria, dal primo di una nuova vita, Lampedusa e la Sicilia, l’Italia ma, soprattutto, l’Europa.
L’Europa, che continua a guardare a queste morti – in questo caso si parla di 700, forse di più – con, diciamocelo pure, una dose consistente di menefreghismo. Sei mesi fa ha pensato bene di sostituire una missione militare a valore prettamente umanitario, Mare Nostrum, con una versione depotenziata, con un nome che più che accoglienza evoca l’ira funesta della mitologia greca, Triton. Meno mezzi, meno soldi, perché quello che importa non è salvare vite umane, quanto piuttosto fare il minimo indispensabile per non sentirsi in colpa o, quantomeno, inattaccabili nelle conferenze stampa. E pensare che l’operazione nasceva sotto tutti i migliori auspici, con tanto di squilli di trombe. Così Alfano lo scorso Novembre: <<Ci sono 19 Stati oltre all’Italia che parteciperanno all’operazione “Triton” coordinata da Frontex. Significa che si sta per realizzare un’operazione con una partecipazione di Stati senza precedenti. Alcuni Stati hanno dato la loro disponibilità con assetti aerei, altri con assetti navali, con personale o fornendo esperti>>. A mio modesto parere, non si trova traccia di questa grande mobilitazione di risorse. E bisognerebbe ammettere, senza tanti giri di parole, che questi primi mesi di rodaggio hanno avuto effetti disastrosi sulle sorti dei migranti. Da Gennaio ad oggi la conta dei morti ha superato i 1500: cento volte più di quanti erano morti lo scorso anno nello stesso periodo. Definire Triton un fallimento sarebbe poco. Ieri, la Mogherini ha dichiarato: <<Abbiamo detto troppe volte “mai più”. Ora è tempo che l’Unione Europea si occupi di queste tragedie senza rimandare. Quello che è successo stanotte al largo delle coste italiane, quello che succede ogni giorno nei confini meridionali dell’Europa è inaccettabile per un’Unione che è stata fondata sui principi della solidarietà, del rispetto per i diritti umani e della dignità per tutti>>. Parole dure quelle del commissario italiano che però, è lecito dubitare, avranno un seguito.
In realtà, il problema non è nel mare, quanto piuttosto nella terra di partenza, l’Africa. Chi riesce a sbarcare ai confini meridionali del continente europeo altro non è che la punta dell’iceberg. Per un migrante che arriva in Italia, ce ne sono 100 che sono torturati, rapiti, stuprati nel tragitto che porta dalle loro case alle coste libiche. Ai tempi di Gheddafi, quando il Cavaliere di Arcore suo amico si vantava di aver fermato il flusso – falso – con i patti di amicizia con il dittatore, esistevano dei veri e propri lager dove venivano trattenuti tutti quelli che avevano avuto la fortuna di attraversare indenni il deserto. Arrivati lì, venivano imprigionati. Le donne violentate dai secondini. Chissà oggi, con una Libia totalmente nel caos, qual è la situazione che attende quei volti disperati una volta arrivati nell’ex colonia italiana.
Le considerazioni da fare, senza cadere nella semplificazione demagogica che si legge in rete, tuttavia, sono a mio avviso due: la prima riguarda il nostro approccio all’emergenza africana in loco: troppo poco. Anzi, forse si contano più i danni che i benefici del nostro impatto sull’economia africana: sfruttamento senza limiti, corruzione dei politici, danni all’ambiente e alla salute delle popolazioni locali. Qui ci vorrebbe una grande ammissione di colpevolezza e un ripensamento di un modello di sviluppo, il nostro, che aggiunge qualità alla nostra vita succhiandola dalle altre. Avete mai pensato alla fine che fanno i nostri rifiuti speciali? Non gli urbani, quelli industriali, per intedersi. Ad oggi, in Italia, non esiste un metodo certo di misurazione delle quantità prodotte e dei flussi in uscita. Chissà quanti di questi siano stati (e tuttora lo siano) inviati in Africa per lo smaltimento. Ma questo è solo un esempio. Il processo culturale sarebbe lungo e difficilmente porterebbe risultati veloci per arginare i flussi migratori, anche se sarebbe tremendamente necessario. L’altra considerazione, quella che costa ancora di più ammettere, è che chi scappa da una guerra o dalla miseria, dovrebbe avere il diritto ad una vita migliore. E questo diritto, un paese (l’Italia) o un’unione di paesi (L’Europa) che si dice fondata sui valori quali accoglienza, solidarietà, dovrebbe garantirlo. Dovremmo avere il coraggio di programmare l’immigrazione e toglierla di mano agli scafisti, ai criminali, alle mafie che sulla pelle dei disperati si arricchiscono come facevano gli schiavisti 400 anni fa. Flussi autorizzati e regolari di richiedenti asilo ma non solo, anche di chi vuole provare ad essere felice, a sognare. Solo così potremmo dire di preoccuparci seriamente di chi parte e magari non arriva, come quei settecento e forse più ragazzi e ragazze morti annegati, la cui colpa è stata quella di sognare un futuro migliore.
Ps: ultima nota, dedicata ai tanti leoni da tastiera che ieri si sono divertiti con commenti del tipo “700 in meno”, “contenti i pesci”, ecc., ai quali propongo una lettura, sempre attuale.
Se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Primo Levi