Eccoci alla terza puntata di questo decalogo. Dopo alcune informazioni che spero siano servite a comprendere la differenza fra due paesi di emigrazione come l’Albania e la Romania, questa volta voglio parlare del terzo gruppo di immigrazione livornese per numero, quello peruviano.
La ricerca di un testo adatto è stata – non posso nasconderlo – mostruosamente complicata. Avevo in mente alcuni punti fermi, che mi sembravano fondamentali per inquadrare la questione dell’arrivo e della vita dei peruviani in Italia: per esempio il bisogno di rimuovere grottesche generalizzazioni, come quella che a volte permette al senso comune di confondere peruviani e filippini; oppure l’importanza di sottolineare il dato culturale della religione, ovvero il fatto che la maggior parte dei peruviani sono cattolici; o ancora la questione delle rimesse, ovvero della quantità enorme di aiuti economici che i peruviani rimandano a casa, che avevo letto essere stata pari, nel 2008, al 279 per cento della somma sociale in aiuti investita dal governo di questo paese, corrispondendo al 3,2 per cento del prodotto interno lordo del Perù per quell’anno.
Però, pomeriggio in biblioteca dopo pomeriggio in biblioteca, la rubrica delle cose importanti di cui parlare lievitava: c’era da dire qualcosa sui flussi di emigrazione dei peruviani verso gli Stati Uniti e la Spagna, decisamente più consistenti di quelli verso l’Italia, c’era da parlare del pregiudizio tutto italiano sull’alcolismo come tratto culturale di questo gruppo di nuovi immigrati, c’era poi la questione dell’impiego altissimo, delle donne peruviane, nei mestieri che riguardano la cura domestica e l’assistenza agli anziani. E altre cose venivano fuori di seguito: il ruolo dell’assistenzialismo cattolico nel caso dell’integrazione di molte di queste persone; l’imprenditoria peruviana in Italia che nasce ‘per rispondere a un’utenza altrettanto specificamente peruviana o comunque sudamericana’, la concentrazione altissima di peruviani in Lombardia, e poi appena dopo a Roma, a Torino e a Firenze; ancora le ragioni per cui insieme ai peruviani siano i venezuelani il secondo principale gruppo di immigrazione di area sudamericana in Italia.
Una cosa che mi è sembrata contante, pomeriggio dopo pomeriggio, è la difficoltà data dalla lontananza geografica e culturale fra Italia e Perù. Rispetto alle due storie precedenti, infatti, questa è più difficile da ‘sintetizzare’ in pillole o note, e credo che questo problema riguarderà anche le letture sull’immigrazione senegalese, su quella filippina, su quella cinese.
Così ho fatto una scelta netta: per capire come i peruviani sono arrivati in Italia, in un determinato periodo storico e con immense difficoltà, va ripercorsa la storia politica peruviana degli anni Ottanta. Il libro di Loris Zanatta è stata la lettura fondamentale che qui ripropongo. Si tratta di una panoramica su tutta l’America, edita da Laterza, e stampata nel 2010.
Allora ecco il Perù degli anni Ottanta, quello da cui sono arrivate le grande ondate di nuovi cittadini italiani di cui discutiamo: nel 1990 dal Perù scappa il presidente Alan Garcìa, travolto dalle accuse di un esercizio sanguinario del suo potere politico e di una gestione scandalosa della crisi economica nazionale. Ora, per capire i termini della questione, ricordiamo che Garcìà, dal 1985 al 1990, esprime le posizioni politiche dell’Apra – ‘Alleanza Popolare Rivoluzionaria Americana’ – nata negli Anni Venti del Nocevento come forza sudamericana internazionale, antimperialista e almeno inizialmente, filomarxista (p. 81). Quindi immaginatevi una scena tipo Bertinotti che scappa in Portogallo dovo aver sterminato trecento carcerati di San Vittore in rivolta e dopo aver venduto la Sicilia agli Stati Uniti e privatizzato la Val padana. Aggiungete un elemento clou del Perù e di molti stati andini di quel periodo: l’iperiflazione. Ovvero una crisi economica deflagrante, verso il suo folle picco nel 1990, in cui con i salari medi di un minatore non si comprerà più nemmeno un pacchetto di sigarette e nei raccolti annuali ogni tonnellata di mais varrà mezzo dollaro. Per concludere va detto anche che il Perù si avvia in quegli anni a divenire, al posto della Colombia, il maggiore produttore di cocaina dell’America Latina e che tutte le risorse veramente abbondanti sul territorio – il legno degli alberi dell’Amazzonia, il rame, l’oro e il petrolio – vengono esportate. Ecco. In questo quadro forse è più semplice capire perché un peruviano su dieci vive fuori dal suo paese e un po’ di questo dieci per cento è arrivato in Italia. Chi non è partito fra il 1985 e il 1990, ha avuto modo di pensarci appena dopo, nei primi anni del successivo governo. A vincere le elezioni del 1990, infatti, è un ingegnere agrario nippoperuviano, che tutti chiamano simpaticamente “El chino”, Alberto Fujimori. Effettivamente Fujimori ce la fece a far rientrare l’inflazione, ma si adoperò in una serie di altre azioni piuttosto incisive. Per esempio nel 1992 chiuse il Congresso e sospese la Corte suprema e nel 1993 cambiò la Costituzione per poter essere rieletto. Poi è anche stato responsabile della strage di Barrios Altos e di quella dell’Universidad La Cantuta, occasioni nelle quali fece crivellare quindici persone sospettate di essere cospiratori politici e ne sequestrò altre nove, studenti universitari con un professore, facendoli sparire nel niente. Aveva le stesse intenzioni anche nei confronti dell’allora corrispondente del quotidiano spagnolo El Pais Gustavo Gorriti, che fece rapire ma poi fu costretto dalla pressione internazionale a rilasciare. Questa ed altre strategie simili le attuava spalleggiato dal capo dei suoi servizi segreti, Vladimiro Montesinos, poi riconosciuto colpevole di corruzione politica, contrabbando di droga e di armi. Fujimori si dimise solo nel 2000, quando vennero alla luce le verità sulle diffuse irregolarità elettorali e sulla corruzione generalizzata. Condannato a 25 anni di carcere, che sta scontando in Cile, ci lascia ancora una questione irrisolta: quella per cui è accusato di aver sterilizzato senza approvazione trecentomila indie, in un piano di controllo demografico nazionale.
Ma mancano gli ultimi due leggendari protagonisti della storia recente del Perù, che forse, molti, potrebbero ‘scoprire’ di conoscere già. Parlo dei gruppi armati Sandero Luminoso e Tupac Amarù. Spesso non del tutto allineati uno all’altro, da 35 anni in Perù questi sono i due eroi della guerriglia maoista contro il governo. I senderisti sono nati e cresciuti in difesa delle zone andine, del loro abbandono e della loro depressione. I militanti del MRTA sono i rersonsabili di un’opposizione metropolitana (e di stampo piuttosto marxista leninista). Nessuno dei due gruppi si esime dalla pratica della violenza sia contro i civili che contro i militari – e sua volta Fujiimori ha adottato negli anni Novanta una politica di repressione di massa nei confronti dei due movimenti.
Anche se i tre amministratori successivi a Fujimori sono stati tendenzialmente più democratici, anche se molti peruviani stanno assistendo compiaciuti a una rapidissima ripresa dell’economia nazionale e pensano alla possibilità di tornare a casa in questi anni, voi ricordatevi una storia, che potete rileggere fra le pagine firmate da Zanatta (p. 202) , e ringraziate i peruviani italiani di aver scelto di voler stare da noi. E’ la storia della crisi di Lima del 2007, ovvero di un sequestro durato quattro mesi e finito nel sangue. Il 17 dicembre dell’anno prima quattordici guerriglieri di Tupac Amaru irruppero nell’Ambasciata nel corso di un ricevimento a cui presenziavano diverse centinaia di persone. Dopo aver rilasciato i più deboli ed anziani, inclusa la mamma di Fujimori, serrarono il palazzo. L’assedio durò fino al 22 aprile del 2007. Quel giorno l’esercito fece irruzione, trucidando i quindici guerriglieri ma anche un ostaggio, il magistrato Carlos Giusti, colpevole di posizioni politiche scomode – cioè di sostenere il bisogno di una magistratura libera e indipendente.