La città natale di Pietro Mascagni, Giovanni De’Gamerra e Giuseppe Maria Cambini, un tempo celebre in tutta Europa per la bellezza dei suoi teatri e per l’alto livello delle rappresentazioni che vi si tenevano, rischia di perdere il suo ultimo baluardo culturale.
Lo storico Teatro Goldoni – inaugurato dal Granduca Leopoldo II nel 1847 ed unico sopravvissuto alle distruzioni belliche del 1943 – potrebbe, infatti, chiudere i battenti già dal prossimo novembre a causa della mancata erogazione, da parte del Comune e della Provincia, di circa centotrentamila euro, a fronte di un originario stanziamento di un milione e seicentomila euro.
Affermare che la responsabilità di un simile vulnus alla tradizione storico-artistica della nostra città sia ascrivibile ai tagli del Governo risulterebbe, quanto meno, riduttivo.
La colpa, inutile negarlo, è almeno in parte riconducibile a noi livornesi, assai poco propensi – nonostante le velleità artistiche di molti – a prendere parte assiduamente agli eventi culturali organizzati in ambito cittadino (ci sarebbe da scomparire dalla vergogna al solo pensiero di un artista come Grigory Sokolov che si esibisce dinanzi ad un numero sparuto di ultra-sessantenni!).
Ma un “j’accuse” ancora più duro deve essere rivolto alla nostra classe dirigente, composta in buona misura da uomini e da donne, per i quali quella della cultura è vissuta tendenzialmente come una questione di poco conto.
Eppure – come si osservava giustamente ieri sulle pagine del Corriere della Sera – basta spostarsi diciannove chilometri più a nord, nella Pisa del sindaco Filippeschi, per trovare una situazione molto diversa da quella che caratterizza ormai la realtà livornese.
Le differenze, spiace dirlo, appaiono stridenti. A Pisa il “tutto esaurito” costituisce la regola (non l’eccezione), la stagione concertistica e quella di prosa sono di alto livello, i prezzi veramente alla portata di tutti (basti porre mente al fatto che il biglietto d’ingresso per assistere ai “Concerti della Normale” è di due euro e cinquanta centesimi per tutti gli iscritti agli Atenei toscani).
Le attività del teatro comunale di Pisa – eretto vent’anno dopo il Goldoni e dedicato, com’è noto, a Giuseppe Verdi – sono gestite dalla Fondazione Teatro di Pisa. Soci della fondazione sono il Comune e la Provincia di Pisa (ai quali spetta la qualifica di “soci di diritto”), la Scuola Normale Superiore, l’Università di Pisa, l’Aretusa (Associazione delle scuole di Pisa), Toscana Energia S.p.a. e la Fondazione Cassa di Risparmi di Pisa. A puro titolo d’informazione, si pensi che tale ultimo ente contribuisce alla gestione delle attività istituzionali con una sovvenzione che si aggira attorno ai trecentomila euro annui: un importo elevatissimo in tempi di crisi economico-finanziaria!
Cinque, invece, sono i soci fondatori dell’ente labronico: il Comune, la Provincia, l’Unicoop Tirreno, la Fondazione Cassa di Risparmi di Livorno e la Camera di Commercio, industria e artigianato. A tali soggetti si affiancano inoltre, in veste di “soci partecipanti”, talune associazioni ed imprese private che – stando almeno al bilancio dell’anno 2010 – contribuiscono singolarmente alla gestione per importi non superiori ai quarantamila euro.
Un’altra importante differenza tra la realtà labronica e quella pisana è ravvisabile nel differente grado di influenza esercitato dalla politica sulla composizione del Consiglio di amministrazione e sulla definizione dei requisiti che ciascun amministratore deve indefettibilmente possedere.
Alcuni esempi bastino.
L’art. 12 dello statuto della Fondazione Teatro di Pisa stabilisce che: “Il consiglio di amministrazione è composto da cinque membri. I componenti del consiglio di amministrazione debbono essere scelti tra persone che abbiano una formazione, una conoscenza e competenza specifica nel campo di attività proprio della fondazione e/o abbiano maturato significative esperienze di carattere gestionale in enti e/o imprese private e pubbliche”. Ebbene, nello statuto della Fondazione Teatro Goldoni non è dato leggere alcunché di analogo, limitandosi detto statuto ad affermare che: “Il Consiglio di Amministrazione è composto da 5 membri: a) il Sindaco del Comune di Livorno in qualità di Presidente; b) componenti designati dal Consiglio di Indirizzo” (art. 15, primo comma).
Ci si chiederà, a questo punto, se almeno i membri del Consiglio di Indirizzo – organo al quale spetta la “definizione delle strategie della Fondazione al fine del raggiungimento delle sue finalità” (art. 13) – debbano essere dotati, per statuto, delle necessarie competenze artistiche e gestionali. La risposta, manco a dirlo, è no.
In conclusione, occorre che le istituzioni locali rispondano chiaramente alla seguente domanda: la cultura, oggi, esse la considerano, o no, come uno dei problemi fondamentali di Livorno? Nel caso di risposta affermativa, si tratterà di attivarsi per reperire fondi e cercare nuove forme di collaborazione con entità pubbliche e private non soltanto locali, rendendo altresì più trasparente la gestione e più autorevole l’offerta artistico-culturale. In questo senso, il modello pisano può fungere da utile punto di raffronto.
In caso di risposta negativa, invece, non resta che rassegnarsi amaramente alla cacciata delle Muse dalla nostra città.