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Dipende dal clima, siamo meteoropatici.

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La politica ci aiuti tutti ad essere meno “idioti”

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Contributo inviato da Rocco Garufo.

Nella campagna elettorale del 2013 mi destò una profonda impressione una frase pronunciata da Beppe Grillo: “siamo passati dalla disperazione alla paura. Abbiamo persino paura di guardare nella cassetta della posta quando usciamo di casa. . .”

In quell’espressione di traboccante normalità, Grillo aveva colto il sentimento di milioni di persone. E fra quei milioni di persone c’ero anch’io. La paura era anche il mio sentimento. Il sentimento di un precario che aveva campato per alcuni anni con la “Partita Iva”, l’aiuto finanziario del padre, le preoccupazioni, le privazioni e le umiliazioni connesse a questo stato di cose. La paura di trovare una multa, una cartella di Equitalia, un atto giudiziario, un richiamo della banca, una spesa improvvisa cui non poter fare fronte.

Forse non è facile da capire, ma la precarietà è veramente il segno di un’esistenza sradicata e appesa ad un filo. Non si tratta solo di trovare qualche euro in più per traguardare economicamente la fine del mese, saldare le bollette, fare la spesa, ecc. La vita non è come una partita di calcio, non butti la palla in “corner” quando la pressione degli avversari è troppo forte e ricominci l’azione col sollievo del pericolo scampato. Superi un mese, ne superi un altro e un altro ancora… e poi? Poi subentra l’angoscia, la paura di un evento imprevedibile che manda fuori squadra il risicato bilancio familiare e ti impedisce di affrontare le banali necessità quotidiane.

Una paura che vivi, respiri e ti si attacca addosso. Ne senti l’odore, o forse è meglio dire la puzza, l’acredine. Una paura che diventa terrore nelle notti insonni, passate a pensare cosa potrebbe accadere: un infortunio, una malattia, un incidente, qualsiasi cosa che non sei in grado di fronteggiare e potrebbe ulteriormente peggiorare il tuo stato e quello dei tuoi familiari. Già, perché la paura ha anche questa peculiarità: è una spirale che quando ti avvolge ti porta sempre più a fondo.

In questo stato di cose l’apatia finisce con l’essere la dimensione normale della quotidianità. Dal momento che non puoi vivere in uno stato di angoscia permanente, pena la nevrosi, la schizofrenia o qualche altro tipo di malattia mentale, allora ti adatti. Rendi inerte la tua sensibilità, accantoni i progetti per il futuro, smetti persino di sperare e di sognare, perché non ne hai più la voglia, temi la delusione, o semplicemente perché ti senti ridicolo a sognare quando lo scarto tra sogno e realtà sembra un divario incolmabile.

Rassegnazione, rabbia e apatia, diventano le compagne di una vita interamente ripiegata sulla sopravvivenza, nella quale tutte le energie intellettuali sono imprigionate dal bisogno di fare fronte alle piccole necessità quotidiane.

Per necessità e non per libera scelta, si diventa “idioti”, nel senso che Aristotele attribuiva a questo termine: persone totalmente appiattite sulla dimensione privata della vita, incapaci di pensare e di occuparsi dei problemi della collettività.

Forse stanno qui le ragioni del “successo” elettorale dei cinque stelle e dell’antipolitica. In quell’impasto di paura e incertezza permanente che avvolge la vita di milioni di persone “normali”, non censite dalle statiche e invisibili ad “occhio nudo”. Quel ceto medio continuamente in bilico tra un’esistenza dignitosa e lo spettro della povertà e della marginalità sociale, che rischia di sentire se stesso fuori da ogni progetto collettivo e da qualsiasi forma di appartenenza alla comunità, che avverte quotidianamente un senso di alienazione e svuotamento del proprio destino, percepito sempre più in balia di forze lontane dalla possibilità di controllo. Sono queste persone, i fuggiaschi nel cono d’ombra del mutismo e dell’astensione, nell’apatia e nella veemenza del radicalismo politico, la linfa vitale dei movimenti populisti e dell’antipolitica.

Tuttavia, se stanno qui le ragioni dell’antipolitica, qui devono stare per forza di cose le ragioni della politica: nel cuore pulsante della questione sociale, nella lotta alla povertà, all’esclusione e alla marginalità. Perché sono coloro che rinunciano a far sentire la loro voce che hanno più bisogno della politica. Della politica intesa in senso alto, come strumento di trasformazione democratica della società .

Ed è sempre qui che trova le ragioni della sua forza e il senso della sua missione un grande partito riformista come il PD. Perché la guida di un processo profondo di trasformazione sociale, non può essere scambiata con l’ansia superficiale di un generico cambiamento, con la pur necessaria sostituzione di facce nuove a volti vecchi, con uno “storytelling” inedito e accattivante. È un’operazione complessa che riguarda la Direzione politica del Paese, la maggiore inclusione nelle sfere dello Stato Democratico e la costruzione di un’ “egemonia”, culturale ancor prima che politica.

È uno sforzo che non spetta solo ad un’élite o un leader, che per quanto mi riguarda è e resterà Matteo Renzi, ma riguarda un partito intero, inteso e vissuto come comunità di valori. Nessuno nel PD si senta escluso, esentato o assolto da questo compito, perché, come cantava Fabrizio de Andrè: “anche se voi vi sentite assolti, siete lo stesso coinvolti”.

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