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Il dilemma Turchia-Unione europea. Quali sviluppi dopo gli eventi di Piazza Taksim

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Dopo gli ultimi avvenimenti di Piazza Taksim e Gezi Park, sorge quasi naturale focalizzarsi, oltre le rivoluzioni, le repressioni violente, e la deriva dittatoriale del governo Erdogan, sugli sviluppi che potrebbe avere la “storia infinita” dell’adesione della Turchia all’Unione europea.

Fin dal 1964 esiste un accordo di associazione tra la Comunità europea e la Turchia, nel 1987 Ankara chiese di aderire alla CEE e solo nel 2005, dopo il Consiglio europeo di Stoccolma, sono iniziate le trattative ufficiali per l’ingresso della Turchia nell’Unione. Le condizioni fissate da Bruxelles erano le stesse poste ad ogni altro candidato: riformare e rafforzare le istituzioni democratiche ed adeguarsi alle condizioni economiche e politiche stabilite dai criteri di Copenaghen; in particolare fu chiesto alla Turchia di riconoscere Cipro ed il genocidio degli Armeni.

La Turchia è un Paese emergente ed ambizioso e negli ultimi dieci anni, la sua economia è cresciuta a ritmi superiori al 5% annuo, con punte del 9% ancora nel 2011. Istanbul ha raggiunto una popolazione di 13.5 milioni, spesso migranti in arrivo dalle province più povere. Ma nonostante questo la Turchia oggi vive un periodo di profonde lacerazioni interne che accompagnano il processo di trasformazione in corso. L’alternativa è tra la deriva antidemocratica nelle forme dell’estremismo islamico; oppure la vittoria delle forze moderate e progressiste che spingono verso una piena integrazione con l’Occidente ed il superamento delle contraddizioni che impediscono al paese di valorizzare le proprie risorse.

Nel 2006 la Commissione europea chiese al consiglio di negoziare l’adesione della Turchia all’UE, rilevando che Istanbul aveva conseguito notevoli progressi. In realtà veniva premiato l’impegno, non i risultati, poiché se da un lato era vero che il premier Erdogan aveva traghettato il paese nella sua seconda democratizzazione e laicizzazione, dopo quella degli anni Venti e Trenta ispirata dal padre della nazione Mustafa Kemal Ataturk, dall’altro veniva rilevato che i progressi della Turchia erano ancora dubbi e modesti con riguardo alla parità di trattamento delle donne, al ruolo dell’esercito, al rispetto delle regole stabilite dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

Dal canto suo, anche l’atteggiamento che l’Unione europea però ha dimostrato negli ultimi anni verso la Turchia si è rivelato profondamente irresponsabile. L’assenza di un vero progetto politico ha spinto l’Unione ad uno sconsiderato processo di allargamento che ha di fatto bloccato lo slancio verso l’unificazione, riducendo l’Europa a poco più di un grande mercato unico. Non deve allora stupire che la burocrazia europea abbia accettato la candidatura della Turchia senza porsi il problema delle conseguenze che questa adesione avrebbe determinato in assenza di un precedente approfondimento politico. Allo stesso tempo molti leader europei, bisognosi di rassicurare le opinioni pubbliche nazionali e spaventati dai problemi interni della Turchia, rifiutano pubblicamente l’ingresso di questo paese nell’Unione.

Ma nel mentre l’Europa stava a guardare, l’emergente Turchia stringeva e fortificava intensi e importanti rapporti politici, economici e diplomatici con altre grandi potenze: in particolare USA (primi alleati di Ankara), e Russia. L’ingresso nell’UE era un punto centrale della prima agenda di Erdoğan, ma dopo l’avvio dei negoziati tutto sembrava essersi fermato.

Oggi le strade di Istanbul somigliano più a quelle delle capitali africane della primavera araba, che non a quelle di una capitale europea.

Alla vigilia della riapertura dei negoziati (prevista per il 26 giugno prossimo), il “riavvicinamento della Turchia all’Unione europea rischia di subire una netta battuta d’arresto”, riporta lo Spiegel online, perché dopo la repressione brutale delle manifestazioni in Turchia molti paesi dell’Unione vorrebbero interrompere i negoziati di adesione. Secondo diverse fonti diplomatiche consultate dal sito tedesco è probabile che l’Ue congeli il dialogo.

Personalmente non sono mai stata una supporter dell’adesione di Ankara all’UE, sia perché l’allargamento a est ha dimostrato che portare nell’UE paesi di dubbia stabilità non vuol dire automaticamente democratizzarli, l’esempio sotto gli occhi di tutti è quello ungherese ma ve ne sono altri; sia perché l’adesione della Turchia ad un’Europa mercato, priva di uno nucleo politico, potrebbe veramente sconvolgere in breve tempo l’intera Unione, che già adesso fatica a funzionare e a tutelare le conquiste raggiunte. L’UE inoltre deve decidere cosa “vuol fare da grande”: se nei prossimi decenni gli Stati europei vogliono contare qualcosa si deve pensare ad una politica estera comune decisa a maggioranza. Nell’attuale Unione la Turchia probabilmente remerebbe nella direzione opposta, attenta a preservare il suo rapporto con gli Stati Uniti.

Importanti esperti di politica dell’Europa dell’est affermano per esempio che una road map dell’Unione europea nei primi anni Novanta per gli Stati nati dopo la dissoluzione della Jugoslavia avrebbe evitato la guerra dei Balcani. Seppure la Turchia non è la Bosnia, non è un Paese con forti contrasti etnici e nessuno vuole improvvisare secessioni, tuttavia vi sono in Turchia pericolosi segnali di arretramento sul piano della democrazia ed è percepibile che il partito di maggioranza, Erdogan in testa, abbia ben poca voglia di parlare con la metà del Paese che non l’ha votato. L’Unione europea deve evitare un’altra Bosnia, deve imporre una soluzione pacifica alla questione turca, non può permettersi ne di tollerare altri massacri ai propri confini, ne di subappaltare nuovamente la sua sicurezza agli Stati Uniti. La Siria, il Mali, le primavere arabe, ma anche decine di conflitti un pò meno recenti, sono state l’occasione per dimostrare che l’UE non ha mai avuto una politica estera comune, decisa, incisiva; speriamo che la Turchia sia l’occasione per dimostrare che le cose possono cambiare.

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