Piermario aveva solo 25 anni quando il suo cuore ha smesso di battere su quel prato verde in diretta televisiva: le immagini drammatiche di quel giorno sono scolpite nei ricordi di tutti gli appassionati di sport. A costargli la vita “la malattia dello sportivo”
Alice Guarnieri ci invia questo interessante contributo per ricordare i 10 anni della morte di Piermario Morosini
Oggi ricorrono i 10 anni dalla scomparsa di Piermario Morosini, calciatore del Livorno colto da improvviso malore allo stadio Adriatico-Cornacchia di Pescara durante la partita Pescara-Livorno.
A costargli la vita una cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro chiamata “la malattia dello sportivo” in quanto colpisce soggetti che praticano sport agonistico di alto livello.
La stessa malattia ha colpito anche Christian Eriksen, giocatore danese ventinovenne con all’epoca con cartellino dell’Inter, durante la partita Danimarca-Finlandia degli europei dell’estate scorsa.
Della famiglia delle cardiomiopatie ereditarie fa parte anche la sindrome di Brugada che ha causato la morte di un altro calciatore, Davide Astori, la notte del 4 Marzo 2018 mentre si trovava in ritiro a Udine alla vigilia di Udinese Fiorentina.
Gli esiti di una stessa displasia in Morosini ed Eriksen sono stati diametralmente opposti per tre diverse variabili: tempismo, abilità dei sanitari e utilizzo del defibrillatore.
Il tempismo e l’abilità dei sanitari nei due casi sono stati pressoché identici, entrambi i giocatori hanno ottenuto un soccorso immediato da medici competenti.
Quello che ha fatto la differenza tra la vita di Christian e la morte di Piermario è stato l’uso del defibrillatore semi-automatico. Sebbene fossero presenti tre defibrillatori nello stadio di Pescara, nessuno li ha mai utilizzati. Piermario ha ricevuto solo massaggi cardiaci che però non sono bastati a salvargli la vita.
La macchina dei soccorsi per Christian invece è risultata celere ma anche efficace in quanto il compagno Simon Kjaer ha prima liberato le vie aeree e successivamente iniziato la manovra di rianimazione, continuata dai medici con l’ausilio del DAE.
Come spiega il presidente del 118 Balzanelli: “Un massaggio cardiaco immediato ad una vittima di arresto cardiaco improvviso, attivato entro i primi 90 secondi, e la scarica erogata da un defibrillatore entro i primi 5 minuti hanno significative probabilità di salvare la vita senza esiti neurologici invalidanti”.
Risulta quindi fondamentale la formazione di quanti più soggetti possibili, non solo sanitari, all’uso del defibrillatore semi-automatico e alle manovre salvavita di primo soccorso così da poter salvare innumerevoli vite di qualunque fascia d’età, ogni giorno ovunque, e non solo su un campo di calcio.
Sui campi di calcio di qualunque categoria, però, dall’entrata in vigore della L.116/2021 è obbligatoria l’installazione di un DAE e la sua registrazione presso la centrale operativa del sistema sanitario con l’indicazione precisa della sua locazione e delle sue caratteristiche, così come negli uffici delle pubbliche amministrazioni.
Grazie a questa legge è possibile reperire più facilmente un defibrillatore vicino al luogo dell’eventuale emergenza e utilizzarlo prima dell’arrivo dei soccorsi, salvando così molte più vite.
Nonostante l’Italia sia all’avanguardia in termini di prevenzione della morte cardiaca improvvisa negli atleti, una parte di patologie a rischio di arresto cardiaco e morte improvvisa non sono identificabili con lo screening.
A volte la patologia non può essere identificata attraverso gli esami previsti dalla visita medica sportiva, come l’elettrocardiogramma da sforzo, ma necessiterebbe di esami più complessi come la risonanza magnetica cardiaca che non vengono svolti in sede di screening.
È chiaro quindi che le visite medico-sportive riducono di molto il rischio ma non lo azzerano.
È possibile individuare chi rischia questi eventi?
L’Università di Padova, in collaborazione con la British Columbia University di Vancouver, è riuscita ad individuare le cellule responsabili della trasformazione patologica del cuore e sta producendo un farmaco innovativo che fermerebbe la malattia.
La dottoressa Alessandra Rampazzo, del Laboratorio di genetica umana molecolare e genomica del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova ha spiegato che: “nelle persone affette da displasia aritmogena del ventricolo destro le cellule del cuore muoiono e vengono sostituite da tessuto fibroso; esso non conduce impulsi elettrici, e quindi causa aritmie, anche fatali. Studiando il DNA di persone malate, abbiamo individuato sei geni che causano la malattia. Così, grazie alla scoperta di questi geni, ora possiamo fare lo studio genetico nei familiari, per individuare chi rischia. La scoperta scientifica ci permette ora anche di realizzare un farmaco.”
La ricerca scientifica, compatibilmente con la presenza di fondi, renderà disponibile il farmaco nei prossimi 2-3 anni e permetterà quindi di non curare l’effetto, come facciamo adesso impiantando un defibrillatore sottocutaneo, ma curare la causa alla radice andando a impedire alle cellule del cuore di diventare fibrose.
In attesa che la ricerca faccia la sua parte, noi possiamo fare la nostra.
È importante che quante più persone possibili svolgano corsi di primo soccorso e siano abilitati all’uso del defibrillatore semi-automatico così che possano esserci più Eriksen, che tornano a praticare sport a livello agonistico, e meno Piermario e Davide.