Non ho mai pensato di donare il sangue, prima di due settimane fa. Un po’ perché nel ‘dono’ c’è quel retrogusto dolciastro di azione in grazia di Dio, un po’ perché il sangue è una cosa complessa, che chiama in causa questioni di etica, di igiene, di diritto, di vicinanza, che come temevo si sono rivelate spinose. Però un sabato di due settimane fa mi ha chiamata mia nonna. Stavo discutendo con il mio compagno se fosse una buona idea andarci a sbronzare a Pisa, quando lei mi ha telefonato al cellulare. Aveva bisogno di aiuto: sangue, una gamba, presto. Ivonia Bertocchini, gabbrigiana di ottantaquattro anni, è la persona più importante della mia vita. Per cui ho fatto presto. Quando dieci minuti dopo sono arrivati i paramedici chiamati in nostro aiuto, uno di loro si è messo a fotografare la sua cucina. Era davvero impressionante: mia nonna si era grattata una crosticina e si era rotta una varice. Nei venti minuti (circa) successivi il sangue era schizzato oscenamente e copiosamente. Cuscini, elettrodomestici, piastrelle, asciugamani. Per non parlare del pavimento. Ecco come mi è venuta la democristiana idea di andare a donare il sangue: vedendolo. Vedendone tantissimo fuoriuscire dalla persona a cui tengo di più.
Non ci ho messo nemmeno due minuti a trovare un’associazione che permettesse di donare e sono così arrivata all’ambulatorio per le donazioni. Ho la residenza a Bologna, ma la cosa l’ho fatta a Livorno per una vasta serie di ragioni, riassumibili in un punto: mi fido mille volte di più della civiltà dei bolognesi che di quella livornese.
L’organizzazione del prelievo è sgradevole e lenta. Prima un questionario, poi una visita, poi gli esami del sangue, poi una prenotazione. Infine di nuovo le analisi e solo allora il riconoscimento di idoneità. Due cose assurde su tutte quelle che mi sono sentita dire e che ho letto: le femmine dovrebbero donare nel periodo più lontano dalle mestruazioni e ai maschi omossessuali, in moltissimi paesi europei, è proibito farlo. Anche se sono dei ciclisti professionisti, astemi e/o dei sindaci.
Ora il peso di queste due cose è molto diverso: se l’idea che il ciclo mestruale metta in pericolo una donatrice di sangue è macabramente oscurantista, quello di considerare una persona che normalmente fa sesso anale come un donatore non idoneo è proprio grave. Grave politicamente, eticamente, civilmente. Perché è questa l’idea che il centro trasfusionale vorrebbe passarti: che si tratta di una specie di vaglio sociosanitario della tua perfetta salute, e auguri a chi si sente di prendere alla leggera un concetto simile. Le analisi bastano e avanzano ad escludere qualunque rischio di malattie infettive e in genere a rilevare qualunque condizione di salute dannosa per un potenziale ricevente. Il resto, che mi preoccupa molto, è il concetto che si debba fare appello alla moralità del donatore, a una specie di riconoscimento preventivo nel profilo del buono, del sano, del giusto. Se andate a donare il sangue sentirete chiaramente quanto la salute sia un fatto intrinsecamente, a volte tragicamente legato alla politica (e niente affatto alla morale politica).
Se fossi stato un maschio omosessuale e avessi superato perfettamente le analisi del sangue avrei taciuto sul tipo di rapporti sessuali che praticavo e su con chi li praticavo? Io certamente sì. E non è detto che mi sarei sentito per niente a posto con la mia, di morale, a farlo. Ma se la scelta che ti lasciano è questa è difficile dire che è meglio essere cretini e docili nei confronti di una violenza simile, di un divieto del genere.
Nei miei risultati è andato tutto bene. Se voglio posso fare questa cosa due volte l’anno, finché non compirò sessant’anni. Per ora lo faccio una volta. Il giorno prima del prelievo vero e proprio non posso fare un trasloco, mi dicono, e la mattina stessa non posso bere latte. Mi presento alle dieci. Mi aspettavano: mi mettono su un lettino in mezzo a un’altra serie di lettini. Non ci sono altre persone intorno a me. In un senso complementare a quello per cui mi irrita così tanto, il prelievo è stupido, semplice, bello nella sua meccanica possibilità. Il tutto dura dieci minuti, più altri cinque a vegetare guardando il soffitto.
Il sangue fa un po’ effetto, e il braccio rimane strano per tutto il giorno, ma davvero niente di che. Me ne vado in macchina, dopo le raccomandazioni di non fumare una sigaretta per almeno un’ora. Ne fumo una tre minuti dopo. Onestamente credo che fra sei mesi lo rifarò, e poi spero di avere la costanza di continuare a farlo due volte l’anno – i maschi possono farlo quattro volte, e l’infermiere ha liquidato la mia domanda sul perché le donne solo due, occupato fra un telefono, le provette, una flebo con attaccata una persona che riceveva una trasfusione in un’altra stanza.
Ma tutto questo riguarda solo me. Non ha senso sentirsi in colpa se uno non lo fa mai o non lo fa ancora. Essere civili non riguarda un certo segno, un solo gesto, tanto meno quello così roboante del privarsi di quattro decilitri di sangue. Come tutti quelli che hanno fatto la guerra, per mia nonna è perfettamente normale regalare coperte in strada e andare a casa a prendere il piatto con la carne, la pasta e il contorno da dare da mangiare a chiunque sembri avere fame. Il mio compagno la guerra non l’ha fatta ma mi ha insegnato a chiedere sempre, a tutti quelli che ti chiedono da maggio a ottobre qualunque cosa, dal se vuoi un accendino a se vuoi diventare Testimone di geova, se hanno sete. E me ne vengono in mente altre migliaia, di cose civili, tutte da fare di fretta e senza pensarci. In questo la donazione del sangue è lenta e da programmare, almeno a Livorno. Richiede un pensierino, o nel mio caso un osceno sabato sera a base di sangue e del suo odore. Ancora prima bisogna davvero pensare all’idea assurda che ad alcune persone sia proibita in base a preferenze sessuali.